Una cosa che non mi aspettavo da To Lose La Track è che facesse un festival come tutti gli altri. E infatti non è così! L’Italian Party più che un festival è un hamburger col pane piccolo e dentro una svizzera più grande, o una di quelle pizze con un chilo di farcia alta 20 centimetri. Sono bravissimo a scegliere le metafore, ma per chi non le avesse capite queste due vogliono dire che suonano un sacco di gruppi, in uno spazio limitato. Volendo potresti arrivare alle 4 del pomeriggio e vedere la prima band, fare due metri e prendere una birra, poi girarti di 180 gradi e guardare la seconda band, girarti e prendere un’altra birra (di solito fa caldo), fare venti metri per andare all’altro palco a vedere un altro gruppo e tornare indietro al palco uno per il gruppo successivo. Niente terza birra, pensi, sennò è troppo, e quindi non fai neanche quei due metri per andare a prenderla. Se a una cert’ora hai fame, fai tre metri e va ai prendere da mangiare. E se ti volti, c’è il bagno proprio lì. Quando è finita la messa, puoi andare a prendere un po’ di freschino al terzo palco, a trenta secondi di cammino dal secondo e trentuno dal primo: in chiesa. Insomma, quel che voglio dire è che non sarà il festival all’insegna dell’attività fisica ma è quello più a misura a cui io sia mai stato.
Ed è anche il festival più simile a Godzilla King of the Monster mai visto: ci sono un sacco di mostri e sono tutti pronti a spaccare tutto. I mostri sarebbero i gruppi, che hanno una gran voglia di salire sul palco e quando ci salgono lo rovesciano. Poi magari qualcuno ti piace qualcun altro no, ma è evidente che hanno tutti molta fotta di suonare, all’Italian Party. Inoltre, muovendoci sempre nel contesto di questa chiarissima metafora, To Lose La Track tira fuori sempre qualcosa di nuovo che non ti aspetteresti. C’è una storia dietro. La regola è che suonano i gruppi che hanno fatto uscire il disco da poco. Però c’è un però. Ogni anno To Lose La Track lavora con il software Spingi per trovare band nuove. Spingi scopre sempre qualcosa di nuovo e To Lose la Track rapisce i gruppi, per cercare di capire come gestirli. Con quelli che gli piacciono, fa dei dischi. Magari succede che Spingi abbia trovato dei gruppi che hanno già fatto il disco con altre etichette, ma se gli piacciono, TLLT li tiene lo stesso. Poi d’estate fa suonare tutti a Umbertide. Ve l’avevo detto io, è proprio come Godzilla, dove il programma Monarch scopre i mostri nuovi, capisce come gestirli, poi loro si prendono a pugni. All’Italian Party funziona uguale, con l’unica differenza che i gruppi si danno dei pugni invisibili. Nessuno si mena, almeno che io sappia. Magari qualcuno si fa male, però da solo.
Quindi, veniamo ai partecipanti alla rissa di quest’anno. I più attenti avranno notato che Urali ha fatto una grande trasformazione: adesso, a parte avere la band, il suo suono è diventato ancora più apocalittico. L’ho visto diverse volte dal vivo e una delle cose che mi piace di più di lui è che suona come se dovesse fare da colonna sonora per la fine del mondo ma lo fa con una calma incredibile. Per questo i suoi concerti sono sempre un po’ una lotta tra due opposti, gli stessi che sono dentro di lui. I Cosmetic portano addosso una croce enorme: tenere sveglia la gioventù sonica italiana. E lo fanno con uno slancio grintosissimo, a volte con un po’ di shoe gaze di troppo per i miei gusti, ma prendendosi anche il rischio di schierarsi politicamente e di scrivere, giustamente, Salvini Merda dietro alla chitarra. Girless è un po’ che non lo becco in giro ma la sua musica mi è sempre piaciuta e nel disco da solo che ha fatto uscire quest’anno sento molto forte puzza di cantautore. Ha la capacità di urlare come se fosse arrabbiatissimo e poi un secondo dopo sussurrare, e lo fa sembrare normale, nel senso che sembra normale che in una canzone si passi da un sentimento al suo opposto in un lampo. Non è normale, ma le sue canzoni sono così. Non sono mai stato un fan dei Lantern e neanche dei Lags, ma conta molto poco, perché io sono uno e piccolo e in giro loro piacciono tantissimo. Gli Asino hanno qualcosa di bello: una follia latente che, essendo appunto latente, non si esplicita chiaramente ma rimane a farti compagnia per tutto il disco (l’ultimo, uscito per Floppy Dischi). È una cosa buona perché significa che hanno trovato una specie di equilibrio da tenere in piedi tra la pazzia e il controllo. Il che non è facile ma vuol dire una sola cosa, una sola parola, che fa paura a tutti, anche a me per primo, ma in fondo è una cosa buona, naturale, che spesso a un certo punto arriva nel flow della vita: la maturità. Che va a periodi, per carità, e il prossimo step potrebbe essere meno maturo del precedente ma è comunque una tappa di un percorso. Rispetto al secondo disco, gli Asino sono meno pazzi e più regolari, per ora è così poi chissà.
Caso e i Riviera non sembra ma hanno un sacco di cose in comune. C’è una gran tensione in entrambi e la tensione è una cosa a cui non puoi rinunciare nella musica, quando la vuoi fare bene. Caso ha una tensione bergamasca, più concentrata sul mito della produzione lombarda: un sacco di parole, tutte indispensabili, per ottenere un risultato finale efficacissimo: canzoni scritte col cuore da lui che diventano del cuore per noi. I Riviera sono più riviera romagnola: si lavora molto ma con un ritmo diverso, che non è lento, ma più da schiaffi, però sempre senza troppe pugnette: si va dritto. Entrambi corrono.
Da giovani, io e mio fratello eravamo soliti scambiarci i dischi con i nostri vicini di casa, Alberto e Gabriele. A volte mio fratello s’incazzava con me perché secondo lui prestavo i suoi dischi senza dirgli niente. Poi si scopriva che era stato lui ma si era dimenticato. Ogni tanto qualcosa dev’essere andato storto perché alcuni dischi sono scomparsi per sempre. Per esempio, io ho Generation RX dei Metroschifter, che Alberto sta ancora cercando. Ma tanto ce l’ha smollato apposta perché rispetto ai dischi precedenti c’era meno hard core. Ma perché vi racconto questa storia così appassionante? Perché all’Italian Party suona Scott Ritcher, dei Metroschifter. Persona interessante, ha fatto un sacco di cose: il designer, l’editore, ha fondato l’etichetta dei primi Rodan e Jawbox, ha suonato in qualche altro gruppo e poi si è candidato nelle liste del Reform Party a sindaco di Lousville e per il Senato del Kentucky. Che diavolo è il Reform Party? Ha da poco fatto uscire l’ep The Kentuckian, anche se adesso sta in Svezia. Sono canzoni chitarra e voce, e sono belle.
Nell’angolo delle malinconia, con Ritcher ci sono anche gli Holding Patterns, ex Crash of Rhinos, che hanno fatto un disco per dirci che non è cambiato niente, è tutto come un tempo, e questo è molto bello, una dimostrazione d’affetto ma anche del fatto che non bisogna condannarsi a cercare di ascoltare qualcosa che non abbia le chitarre per essere al passo coi tempi. Per esempio, i DUMMO. Sono tornati dopo anni, e sono gli stessi, e va benissimo.
Finalmente vedrò dal vivo le Tacobellas (no To Lose La Tracks, ma amiche trovate col software Spingi) per la prima volta e gli Action Dead Mouse dopo un po’ di tempo. Sono due gruppi all’opposto. Le Tacobellas sono delle delicatone, una chitarra e una batteria che fanno del genere musicale peso una missione, la missione di uccidere tutte le storie sulle chitarre che non vanno più bene. Gli Action Dead Mouse sono dei delicatoni davvero, potenti e complicati. Hanno il grande pregio di non perdere in potenza a causa della scrittura non lineare, cosa che in altri casi succede e non mi piace. Gli Anna Ox hanno scelto un nome ingombrante ma lo compensano con l’ineffabilità della loro musica. Riprendono, rinfrescandola, la serie elettronica di TLLT, quella di Dream Trucks, Survive, Crimea X. Ma vanno anche oltre, fino a spingermi a ricordare il grandissimo DJ Minaccia.
Per presentare i Cacao volevo invece solo
Un rigurgito degli anni della mia estrema giovinezza – di quando faceva ridere brasilianizzare l’italiano, adesso invece prima la comicità in italiano – che sembra non c’entrare niente con i Cacao e invece c’entra tantissimo: ogni volta che li vedo torno bambino, mi viene voglia di vedere gente matta che suona e scopro di essere cambiato perché una volta la gente che faceva la matta mi dava sui nervi. E Nino Frassica non mi fa più ridere da anni. Piccolo sipario nero e triste su di lui, ma luci puntate sui Cacao, che dal canto loro non passeranno mai in radio, con quel nome che anche se è italiano suona così straniero, troppo, più straniero degli altri nomi, perché è nero. E questo è un motivo in più per andarli a vedere a Umbertide. I Cacao sono sempre dolorosi ma anche divertenti, e questi sono altri due motivi. Sono in due come i Mood, ma con un basso e una chitarra e un minimo di basi. Sono veramente mindscape.
A questo punto per me entriamo nel campo dell’ignoto. Con YOY e Land Wars ho provato quella sensazione che provo spesso ma che ogni volta è una sorpresa: quando non ho mai sentito neanche nominare un gruppo. Che roba faranno? mi chiedo. Potrebbero fare qualsiasi cosa e l’attimo in cui inizio ad ascoltare è un misto di curiosità e incertezza e vale sempre la pena di essere vissuto. Gli YOY escono per WWNBB. E questo è importante. Ma è ancor più figo il fatto che con YOY l’Italian Party non si limita solo a far suonare delle chitarrone buone ma propone anche suoni diversi (psych pop?), lontani da quello che produce nella maggior parte dei casi, in realtà così vicini alla sua storia (serie elettronica docet). Così lontano, così vicino, eh. Il che significa che non serve decretare la fine delle chitarre e neanche la loro supremazia, bisogna solo scegliere quello che ti piace. Non mi sono ancora fatto un’idea precisa sugli YOY ma è chiaro il loro ruolo, e quello degli Anna Ox, nel contesto dell’Italian Party: spostare l’attenzione verso suoni diversi e farlo nel segno della continuità, perché non sono i primi ad avere questo compito ma raccolgono l’eredità lasciata da Suvari all’edizione dell’anno scorso. I Land Wars invece ritornano sui territori attraversati più di recente da TLLT, math rock come se piovesse. Sono usciti per Lonely Ghost records e General Soreness e sono in due, batteria e chitarra, come i Mood. One from UK, one from Finale Emilia ma dal punto di vista musicale non sono per niente distanti.
Veniamo agli ultimi due della lista, e non in ordine alfabetico. The Love Supreme, con gente da ogni dove – Chambers, Di(e)abete, Tutti I Colori Del Buio e Cayman The Animal – potrebbero essere una forza oppure un disastro. Blanket Fort l’anno scorso ha fatto un disco (per DiNotte Records) che se solo fossi stato più sveglio e attento l’avrei ascoltato di più e magari avrei scritto qualcosa. Ricorda Servant Songs. Anche se quello di Umbertide sarà l’ultimo concerto che fa, non per scomparire ma per fare cose diverse, non è troppo tardi per ascoltarlo, anzi è una scusa per ascoltarlo ancora, e arrivare preparati al 20 luglio. Studiate, che io studio, studiamo insieme.
L’Italian Party è un festival per duri, dove i più duri sono gli organizzatori che corrono di continuo ma tengono botta. “Tin bòta!” è un’espressione che si usa in Romagna per dire “resisti” di fronte a una situazione che richiede uno sforzo.
Tenere botta è un sfida per qualcosa di importante ed è una dimostrazione di forza, fisica e morale. La crew dell’Italian Party tiene botta, in un caldo, ma un caldo, di quelli convinti. E tiene botta perché organizza un festival che non ha eguali in Italia, da 19 anni. A fine giornata, si ritira tra le campagne umbre a rilassarsi in un agriturismo.
Bisogna dire che anche il pubblico è un duro e tiene botta. Il pubblico (non pagante, tutto gratis, per questo bisogna sostenere i gruppi e l’organizzazione, comprando roba ai banchetti e il supporter pack) ci dà dentro e il rientro a casa è sempre silenzioso. C’è chi sceglie di dormire là. Noi siamo sempre andati e tornati in giornata, quindi, insomma, vuol dire che il motivo valido per andarci c’è. Non capita spesso di vedere una battaglia di mostri che si prendono a pugni invisibili.
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