Gente che tiene botta: Italian Party 2019

love supreme italian party

Una cosa che non mi aspettavo da To Lose La Track è che facesse un festival come tutti gli altri. E infatti non è così! L’Italian Party più che un festival è un hamburger col pane piccolo e dentro una svizzera più grande, o una di quelle pizze con un chilo di farcia alta 20 centimetri. Sono bravissimo a scegliere le metafore, ma per chi non le avesse capite queste due vogliono dire che suonano un sacco di gruppi, in uno spazio limitato. Volendo potresti arrivare alle 4 del pomeriggio e vedere la prima band, fare due metri e prendere una birra, poi girarti di 180 gradi e guardare la seconda band, girarti e prendere un’altra birra (di solito fa caldo), fare venti metri per andare all’altro palco a vedere un altro gruppo e tornare indietro al palco uno per il gruppo successivo. Niente terza birra, pensi, sennò è troppo, e quindi non fai neanche quei due metri per andare a prenderla. Se a una cert’ora hai fame, fai tre metri e va ai prendere da mangiare. E se ti volti, c’è il bagno proprio lì. Quando è finita la messa, puoi andare a prendere un po’ di freschino al terzo palco, a trenta secondi di cammino dal secondo e trentuno dal primo: in chiesa. Insomma, quel che voglio dire è che non sarà il festival all’insegna dell’attività fisica ma è quello più a misura a cui io sia mai stato.

Ed è anche il festival più simile a Godzilla King of the Monster mai visto: ci sono un sacco di mostri e sono tutti pronti a spaccare tutto. I mostri sarebbero i gruppi, che hanno una gran voglia di salire sul palco e quando ci salgono lo rovesciano. Poi magari qualcuno ti piace qualcun altro no, ma è evidente che hanno tutti molta fotta di suonare, all’Italian Party. Inoltre, muovendoci sempre nel contesto di questa chiarissima metafora, To Lose La Track tira fuori sempre qualcosa di nuovo che non ti aspetteresti. C’è una storia dietro. La regola è che suonano i gruppi che hanno fatto uscire il disco da poco. Però c’è un però. Ogni anno To Lose La Track lavora con il software Spingi per trovare band nuove. Spingi scopre sempre qualcosa di nuovo e To Lose la Track rapisce i gruppi, per cercare di capire come gestirli. Con quelli che gli piacciono, fa dei dischi. Magari succede che Spingi abbia trovato dei gruppi che hanno già fatto il disco con altre etichette, ma se gli piacciono, TLLT li tiene lo stesso. Poi d’estate fa suonare tutti a Umbertide. Ve l’avevo detto io, è proprio come Godzilla, dove il programma Monarch scopre i mostri nuovi, capisce come gestirli, poi loro si prendono a pugni. All’Italian Party funziona uguale, con l’unica differenza che i gruppi si danno dei pugni invisibili. Nessuno si mena, almeno che io sappia. Magari qualcuno si fa male, però da solo.

Quindi, veniamo ai partecipanti alla rissa di quest’anno. I più attenti avranno notato che Urali ha fatto una grande trasformazione: adesso, a parte avere la band, il suo suono è diventato ancora più apocalittico. L’ho visto diverse volte dal vivo e una delle cose che mi piace di più di lui è che suona come se dovesse fare da colonna sonora per la fine del mondo ma lo fa con una calma incredibile. Per questo i suoi concerti sono sempre un po’ una lotta tra due opposti, gli stessi che sono dentro di lui. I Cosmetic portano addosso una croce enorme: tenere sveglia la gioventù sonica italiana. E lo fanno con uno slancio grintosissimo, a volte con un po’ di shoe gaze di troppo per i miei gusti, ma prendendosi anche il rischio di schierarsi politicamente e di scrivere, giustamente, Salvini Merda dietro alla chitarra. Girless è un po’ che non lo becco in giro ma la sua musica mi è sempre piaciuta e nel disco da solo che ha fatto uscire quest’anno sento molto forte puzza di cantautore. Ha la capacità di urlare come se fosse arrabbiatissimo e poi un secondo dopo sussurrare, e lo fa sembrare normale, nel senso che sembra normale che in una canzone si passi da un sentimento al suo opposto in un lampo. Non è normale, ma le sue canzoni sono così. Non sono mai stato un fan dei Lantern e neanche dei Lags, ma conta molto poco, perché io sono uno e piccolo e in giro loro piacciono tantissimo. Gli Asino hanno qualcosa di bello: una follia latente che, essendo appunto latente, non si esplicita chiaramente ma rimane a farti compagnia per tutto il disco (l’ultimo, uscito per Floppy Dischi). È una cosa buona perché significa che hanno trovato una specie di equilibrio da tenere in piedi tra la pazzia e il controllo. Il che non è facile ma vuol dire una sola cosa, una sola parola, che fa paura a tutti, anche a me per primo, ma in fondo è una cosa buona, naturale, che spesso a un certo punto arriva nel flow della vita: la maturità. Che va a periodi, per carità, e il prossimo step potrebbe essere meno maturo del precedente ma è comunque una tappa di un percorso. Rispetto al secondo disco, gli Asino sono meno pazzi e più regolari, per ora è così poi chissà.

Caso e i Riviera non sembra ma hanno un sacco di cose in comune. C’è una gran tensione in entrambi e la tensione è una cosa a cui non puoi rinunciare nella musica, quando la vuoi fare bene. Caso ha una tensione bergamasca, più concentrata sul mito della produzione lombarda: un sacco di parole, tutte indispensabili, per ottenere un risultato finale efficacissimo: canzoni scritte col cuore da lui che diventano del cuore per noi. I Riviera sono più riviera romagnola: si lavora molto ma con un ritmo diverso, che non è lento, ma più da schiaffi, però sempre senza troppe pugnette: si va dritto. Entrambi corrono.

Da giovani, io e mio fratello eravamo soliti scambiarci i dischi con i nostri vicini di casa, Alberto e Gabriele. A volte mio fratello s’incazzava con me perché secondo lui prestavo i suoi dischi senza dirgli niente. Poi si scopriva che era stato lui ma si era dimenticato. Ogni tanto qualcosa dev’essere andato storto perché alcuni dischi sono scomparsi per sempre. Per esempio, io ho Generation RX dei Metroschifter, che Alberto sta ancora cercando. Ma tanto ce l’ha smollato apposta perché rispetto ai dischi precedenti c’era meno hard core. Ma perché vi racconto questa storia così appassionante? Perché all’Italian Party suona Scott Ritcher, dei Metroschifter. Persona interessante, ha fatto un sacco di cose: il designer, l’editore, ha fondato l’etichetta dei primi Rodan e Jawbox, ha suonato in qualche altro gruppo e poi si è candidato nelle liste del Reform Party a sindaco di Lousville e per il Senato del Kentucky. Che diavolo è il Reform Party? Ha da poco fatto uscire l’ep The Kentuckian, anche se adesso sta in Svezia. Sono canzoni chitarra e voce, e sono belle.

Nell’angolo delle malinconia, con Ritcher ci sono anche gli Holding Patterns, ex Crash of Rhinos, che hanno fatto un disco per dirci che non è cambiato niente, è tutto come un tempo, e questo è molto bello, una dimostrazione d’affetto ma anche del fatto che non bisogna condannarsi a cercare di ascoltare qualcosa che non abbia le chitarre per essere al passo coi tempi. Per esempio, i DUMMO. Sono tornati dopo anni, e sono gli stessi, e va benissimo.

Finalmente vedrò dal vivo le Tacobellas (no To Lose La Tracks, ma amiche trovate col software Spingi) per la prima volta e gli Action Dead Mouse dopo un po’ di tempo. Sono due gruppi all’opposto. Le Tacobellas sono delle delicatone, una chitarra e una batteria che fanno del genere musicale peso una missione, la missione di uccidere tutte le storie sulle chitarre che non vanno più bene. Gli Action Dead Mouse sono dei delicatoni davvero, potenti e complicati. Hanno il grande pregio di non perdere in potenza a causa della scrittura non lineare, cosa che in altri casi succede e non mi piace. Gli Anna Ox hanno scelto un nome ingombrante ma lo compensano con l’ineffabilità della loro musica. Riprendono, rinfrescandola, la serie elettronica di TLLT, quella di Dream Trucks, Survive, Crimea X. Ma vanno anche oltre, fino a spingermi a ricordare il grandissimo DJ Minaccia.

Per presentare i Cacao volevo invece solo

Un rigurgito degli anni della mia estrema giovinezza – di quando faceva ridere brasilianizzare l’italiano, adesso invece prima la comicità in italiano – che sembra non c’entrare niente con i Cacao e invece c’entra tantissimo: ogni volta che li vedo torno bambino, mi viene voglia di vedere gente matta che suona e scopro di essere cambiato perché una volta la gente che faceva la matta mi dava sui nervi. E Nino Frassica non mi fa più ridere da anni. Piccolo sipario nero e triste su di lui, ma luci puntate sui Cacao, che dal canto loro non passeranno mai in radio, con quel nome che anche se è italiano suona così straniero, troppo, più straniero degli altri nomi, perché è nero. E questo è un motivo in più per andarli a vedere a Umbertide. I Cacao sono sempre dolorosi ma anche divertenti, e questi sono altri due motivi. Sono in due come i Mood, ma con un basso e una chitarra e un minimo di basi. Sono veramente mindscape.

A questo punto per me entriamo nel campo dell’ignoto. Con YOY e Land Wars ho provato quella sensazione che provo spesso ma che ogni volta è una sorpresa: quando non ho mai sentito neanche nominare un gruppo. Che roba faranno? mi chiedo. Potrebbero fare qualsiasi cosa e l’attimo in cui inizio ad ascoltare è un misto di curiosità e incertezza e vale sempre la pena di essere vissuto. Gli YOY escono per WWNBB. E questo è importante. Ma è ancor più figo il fatto che con YOY l’Italian Party non si limita solo a far suonare delle chitarrone buone ma propone anche suoni diversi (psych pop?), lontani da quello che produce nella maggior parte dei casi, in realtà così vicini alla sua storia (serie elettronica docet). Così lontano, così vicino, eh. Il che significa che non serve decretare la fine delle chitarre e neanche la loro supremazia, bisogna solo scegliere quello che ti piace. Non mi sono ancora fatto un’idea precisa sugli YOY ma è chiaro il loro ruolo, e quello degli Anna Ox, nel contesto dell’Italian Party: spostare l’attenzione verso suoni diversi e farlo nel segno della continuità, perché non sono i primi ad avere questo compito ma raccolgono l’eredità lasciata da Suvari all’edizione dell’anno scorso. I Land Wars invece ritornano sui territori attraversati più di recente da TLLT, math rock come se piovesse. Sono usciti per Lonely Ghost records e General Soreness e sono in due, batteria e chitarra, come i Mood. One from UK, one from Finale Emilia ma dal punto di vista musicale non sono per niente distanti.

Veniamo agli ultimi due della lista, e non in ordine alfabetico. The Love Supreme, con gente da ogni dove – Chambers, Di(e)abete, Tutti I Colori Del Buio e Cayman The Animal – potrebbero essere una forza oppure un disastro. Blanket Fort l’anno scorso ha fatto un disco (per DiNotte Records) che se solo fossi stato più sveglio e attento l’avrei ascoltato di più e magari avrei scritto qualcosa. Ricorda Servant Songs. Anche se quello di Umbertide sarà l’ultimo concerto che fa, non per scomparire ma per fare cose diverse, non è troppo tardi per ascoltarlo, anzi è una scusa per ascoltarlo ancora, e arrivare preparati al 20 luglio. Studiate, che io studio, studiamo insieme.

L’Italian Party è un festival per duri, dove i più duri sono gli organizzatori che corrono di continuo ma tengono botta. “Tin bòta!” è un’espressione che si usa in Romagna per dire “resisti” di fronte a una situazione che richiede uno sforzo.

Tenere botta è un sfida per qualcosa di importante ed è una dimostrazione di forza, fisica e morale. La crew dell’Italian Party tiene botta, in un caldo, ma un caldo, di quelli convinti. E tiene botta perché organizza un festival che non ha eguali in Italia, da 19 anni. A fine giornata, si ritira tra le campagne umbre a rilassarsi in un agriturismo.

Bisogna dire che anche il pubblico è un duro e tiene botta. Il pubblico (non pagante, tutto gratis, per questo bisogna sostenere i gruppi e l’organizzazione, comprando roba ai banchetti e il supporter pack) ci dà dentro e il rientro a casa è sempre silenzioso. C’è chi sceglie di dormire là. Noi siamo sempre andati e tornati in giornata, quindi, insomma, vuol dire che il motivo valido per andarci c’è. Non capita spesso di vedere una battaglia di mostri che si prendono a pugni invisibili.

Tutte le informazioni sono qui

PS. L’inizio di questo articolo è copiato da un altro articolo di un altro sito. Quale? È facile.

L’ORIGINE DEL CALDO. Un racconto per l’Italian Party 18

Orso Grigio grande fan dell’Italian Party vi invita a partecipare al festival il 21 luglio e a leggere questo racconto istruttivo, scritto dal suo amico Trucco e ispirato al caldo delle scorse edizioni.

Ginetta: “Allora ci vediamo domani?”
Gino: “Ci vediamo domani”
Ginetta: “Alle 4 davanti alla fontana?”
Gino: “Alle 4 davanti alla fontana”
Ginetta: “Sicuro sicuro?”
Gino: “Si, si, sicuro”
Ginetta: “Ok. Ciao”
Gino: “Ciao”

Gino e Ginetta si scambiarono un lunghissimo bacio. Poi si guardarono negli occhi e Ginetta ruppe per prima il contatto visivo: ragazza un po’ pedante, però quando c’era da prendere le decisioni importanti era sempre lei che faceva il primo passo. Lo salutò e si allontanò verso il centro del paese. Gino rimase qualche secondo immobile a guardarla, poi se ne andò dalla parte opposta.

Ginetta abitava molto vicino. Camminava spedita, felice. Con le mani in tasca, le sembrava di stringere un foglio: il foglio dell’appuntamento con Gino. Lo sentiva. Lo tirò fuori. Aprì il pugno. Era vuoto, sorrise. Un appuntamento fantasma. Arrivata di fronte a casa, suonò il campanello. Sorrideva ancora. “Chi è?” chiese la voce decrepita della nonna. “Sono io, apri”. La nonna le aprì insolitamente subito e Ginetta scomparve dietro al portone.

Gino invece doveva prendere l’autobus per tornare a casa e quindi raggiunse la fermata. “Domani alle 4” pensava. “Domani alle 4, domani alle 4, non devo sbagliarmi”. Dovette aspettare un bel po’ prima che arrivasse il B3. Era caldo, ti credo, era il 20 luglio, se non fa caldo il 20 luglio, quando lo fa? Ai lati della strada c’erano le fiammelle di calore, come sempre con quella stagione. Poi, successe una cosa nuova: i pensieri di Gino incominciarono a incasinarsi, le parole nella sua mente si ammucchiarono. “Alle domani 4” pensava. “Domani due più due alle”. Il caldo tramortiva la sua lucidità, cervello e memoria erano finiti chissà dove. Valli a trovare adesso.

Finalmente arrivò l’autobus. Gino salì e si mise a sedere (aveva l’abbonamento). Fin lì ce la poteva fare. Non c’era nessuno. Solo lui, l’autista accaldato e qualche fiammella sparsa qua e là sulle sedie. Le porte si chiusero e l’autobus partì. Le parole gli uscirono dalla testa. Tutte le lettere si sparpagliarono impazzite lungo il corridoio. Gino si alzò incredulo e tentò di raccoglierle ma erano bollenti e scivolose e non riusciva a tenerle in mano. Si stavano sciogliendo per il caldo. Ogni tanto una fiammella gli passava davanti per scendere o cambiare posto: le sedie si stavano liquefacendo e la loro plastica si appiccicava a quella delle lettere. Che vita di merda. Riuscì a raccoglierle tutte e portarsele via in qualche modo.

L’autobus si fermò davanti a casa. Una volta nella sua stanza, buttò tutte le lettere sul tavolo. Passò tutta la sera a cercare di riordinarle. Ma non ci riuscì. Nella sua mente, rinfrescata dal condizionatore, si era ristabilito un discreto ordine. Ma quelle lettere e quel pensiero, ormai usciti dalla testa, rimanevano privi di senso. Le lettere si erano solidificate ma continuavano a non voler dire niente. Passò tutta la notte ad anagrammare. Sapeva che quella frase era importante. C’era una F, o forse una E mozzata, una I, che forse era stata una L. E ce n’erano altre. Non che fossero tante, ma gli sembravano più di quelle che dovevano essere, ed erano monche. Si addormentò all’alba, mentre fuori spuntavano le prime fiammelle. Scomparivano al crepuscolo e ritornavano in città alle prime ore del mattino. Era già un gran caldo.

L’indomani alle 4
Ginetta era appena arrivata alla fontana.
“Gino non c’è ancora” pensò.
Le piaceva arrivare per prima agli appuntamenti. Non in anticipo, per prima. E le piaceva ancora di più arrivare per prima agli appuntamenti con Gino. “Non è difficile” pensò. Guardava gli zampilli dell’acqua, lanciava nella vasca alcune vecchie lire, infilava le mani nell’acqua e si sciacquava la faccia. Le piaceva quella fontana. Lì s’incontrava sempre con Gino. Lì si erano visti per la prima volta: era estate, lui stava facendo il bagno e lei, seduta sullo scalino che gira intorno alla fontana, leggeva un libro. Gino scivolò proprio quando era accanto a lei e la bagnò dalla testa ai piedi. “E svegliati!” gli voleva urlare Ginetta, che all’inizio si arrabbiò, poi scoppiò a ridere. Gino sembrava proprio imbranato.

Di sicuro, era sempre in ritardo. Per passare il tempo, Ginetta guardava le fiammelle che cadevano nell’acqua e si spegnevano, lasciando il niente dopo di sé. Saltavano sul muro e, ignare del pericolo, si tuffavano, friggevano per qualche secondo e scomparivano. “Un po’ di caldo in meno” diceva Ginetta ogni volta che ne moriva una.
In realtà, col tempo le fiammelle erano diventate più furbe e nell’acqua ce ne finivano sempre meno, solo quelle più giovani (quelle gialle). Quelle più anziane (rosse) erano più esperte. Si erano evolute e avevano imparato che a quella fontana non si dovevano neanche avvicinare. Sai mai che qualche infamone gliele buttasse dentro. Cercavano di insegnare come funziona la loro vita grama alle fiammelle gialle ma non tutte ascoltavano e spesso erano incontrollabili. Son ragazzi. E poi dicevano che ogni volta che moriva una fiammella gialla, ne compariva una rossa, da qualche parte, quindi era impossibile salvarsi.

Ginetta si avvicinò a una delle fiammelle rosse, perché vedeva un riflesso strano. La fiammella la guardò un po’ storto ma non si mosse, per sicurezza, spaventata. Ginetta riuscì a vedere il riflesso e quello che conteneva. C’era una piazza e un chiosco e in un cartellone grande c’era scritto Italian Party 100 o una cosa del genere. C’erano tre palchi e sopra ogni palco c’era un certo Johnny Mox in tre versioni diverse: uno che sembrava lui da vecchio che suonava musica mai sentita, uno più giovane che faceva hip hop e un altro che faceva una cosa con dei ragazzi neri. Poi si sentivano le voci di un po’ di boys che dicevano “Ma che caldo fa” e uno di loro, che era proprio Gino, rispose “Tranquilllo, ho il mio cellulare refrigerante” e li spruzzò tutti coprendoli di un morbido velo di gelo. Al che loro se ne andavano in giro dicendo “Ah che bello ci vediamo l’Italian Party al fresco, possiamo girare da un palco all’altro e vedere tutti i gruppi!”.

Le 4 e 10 minuti. Ginetta si allontanò dalla fiammella rossa direi, a dir poco, pensierosa. E cosa sarà questo Party Italian 100? Ma poi, è vero, chissà che fine avrà fatto il cellulare di Gino, perché non lo usa per chiamarmi o mandarmi un messaggio? E cosa ci faceva Gino là? “Appena arriva m’incazzo”. Come al solito. “Io non sono mai arrivata in ritardo a un appuntamento con lui” pensava. Sono sempre io ad aspettare. “Che stronzo”. Ma Gino non lo faceva apposta, ogni volta che avevano un appuntamento, un imprevisto lo faceva tardare. Un imprevisto insormontabile. Cause di forza maggiore. Sempre.
Le 4 e 13. “Questa volta si sarà rovesciata sotto sopra la casa…”. Ginetta si bagnò di nuovo il viso. Faceva un caldo incredibile. Una fiammella morì nello stesso momento in cui infilò le mani nell’acqua. Fissò per qualche istante il vuoto lasciato dal fuoco. Lo fissò attentamente. Mai nessuna fiammella negli anni le aveva rivelato il segreto dell’Italian Party.
Le 4 e 16. Tirò fuori lo smartphone dalla borsetta. Ancora nessun messaggio. Attaccò ad ascoltare questo Johnny Mox su Spotify. Il ritmo di quella canzone, The Long Drape, si sposava perfettamente con quello delle fiammelle che morivano scandendo il passare del tempo.
Le 4 e 21. Sul cd la canzone successiva, nella fontana altre fiammelle morte. Ginetta, molto arrabbiata. Nessuna ipotesi assurdamente realistica le venne in mente e certamente la sua più ricercata fantasia non sarebbe stata all’altezza della fantastica realtà di Gino. Spense il Spotify e rimise lo smartphone nella borsa. La sua rabbia era lì lì per esplodere.
Le 4 e 22. Esplose. Si alzò in piedi, raggiunse due fiammelle rosse che facevano la siesta, le raccolse e le scaraventò nell’acqua. Una mossa felina, non fece neanche in tempo a bruciarsi. Pedante, ma veloce. Una delle due fiamme doveva essere quella che le aveva rivelato la profezia del Party italiano. “Sembrava una cosa bella, speriamo che succeda lo stesso anche se ho ammazzato la fiammella”. Un paio di passanti la fissarono stupiti e lei li bruciò con lo sguardo. Se ne andarono.

Ma che fine aveva fatto Gino? Aveva rinunciato a cercare un senso al pensiero perduto ed era uscito di casa per andare alla fontana, tanto si vedevano sempre lì. E, mentre s’incamminava verso la fermata dell’autobus facendo il numero di Ginetta sul cellulare, era inciampato dentro a una fiammella ed era finito all’Italian Party. Una volta di là, la richiamò. Lei rispose e Gino disse: “Muoio dalla voglia di raccontarti che cosa assurda mi è successa”. Lei, seduta sullo scalino della fontana, chiese:

“Ah si, e cosa, sentiamo?”
“Stavo venendo alla fontana ma sono inciampato in una fiammella, ci sono cascato dentro e adesso sono..”
“Ma vaffanculo.. All’Italian Party 100?”
“Si… come fai a saperlo?”

Ginetta vide all’improvviso un’altra fiammella rossa con il riflesso dell’Italian Party e gli rispose: “Aspé, arrivo”. E si tuffò dentro alla fiammella.

Si ritrovò nella piazza che aveva visto prima, con lo stesso cartellone, solo che notò che c’era scritto Italian Party 100 °C. In effetti faceva caldino e si mise alla ricerca di Gino, che amava tanto ma che soprattutto aveva il suo cellulare refrigerante. Lo trovò, a lei passò subito l’incazzatura, si refrigerarono insieme, videro un sacco di concerti, tipo diciannove, e senza avere caldo. Umbertide? Si si, dovevano essere lì, l’aveva detto uno prima. Si, e a Umbertide non c’erano le fiammelle, e neanche la fontana. Lì c’era la Fiamma Imperatrice, la più rossa di tutte, la più grande di tutte, in fondo alla piazza, inspegnibile, il caldo si spreddava proprio a partire da lei per tutto il Mondo e a Umbertide non c’era possibilità di rinfrescarsi se non con della birra. Per un pelo di arietta fresca bisognava aspettare il calar della sera. Era il cuore del caldo mondiale ma l’Imperatrice aveva una certa età, andava a dormire presto e quando dormiva emanava meno caldo. Per quello le fiammelle scomparivano di notte. Un sistema infallibile, che aveva inventato, brevettato e venduto in tutto il Mondo tanti anni prima, quando era dagli amici Sumeri. Adesso abitava a Umbertide, perché la riportava indietro ai tempi antichi.

Umbertide, una cittadina senza fiammelle (le prime iniziavano a vedersi subito fuori da Umbertide perché l’Imperatrice era un po’ prima donna e voleva dominare la città) e senza la possibilità di abbassare la temperatura uccidendole, ma dove una volta all’anno si organizzava quel Party con concerti a nastro. Qualcuno viveva lì ma la maggior parte della gente era passata come G&G attraverso una fiammella, da città diverse. Per loro era stato un caso, ma gli altri conoscevano questa Festa Italiana e infatti si erano portati dietro i banchetti per vendere dischi, toppe o magliette. E quelli che suonavano erano passati con gli strumenti e tutto. Ci devono essere delle mega fiammelle dalle loro parti. Ma la Fiamma Imperatrice è immortale? O quando morirà verrà sostituita dalla seconda fiamma più grande? O la successione è ereditaria? Ma le fiammelle rosse crescono anche di dimensione? Tutte domande che rimarranno senza risposta.

Con quelle temperature il cellulare refrigerante, per ricaricarsi, aveva bosogno di ore e purtroppo non poteva essere usato per fare la refrigerazione do it your self per gli altri regaz, ma tutti gli invidiosi se ne fecero facilmente una ragione perché fu una grande festa. C’era anche una chiesa-palco e i regaz ogni tanto andavano a rinfrescarsi tra le mura sacre che, si sa, sono sempre più fresche. Fuori dalla chiesa c’era un sit-in di protesta dove si urlava “Facciamoci suonà anche Tunonna nella chiesa!”.
Nel corso della giornata avevano suonato addirittura due gruppi inglesi, i Tellison e gli Olympians; tali Labradors avevano fatto saltare tutti, ma anche gli I Like Allie; in un gruppo chiamato Gazebo Penguins c’era il cantante che si chiamava Capra e a fine concerto aveva una linea del sudore incredibile sulla maglietta*; i più cattivi erano stati i Montana, i Chambers e i Kint, i più matti da far paura i Cayman o qualcosa del genere, di Johnny Mox la Ginetta si era già innamorata; oltre a Tunonna, anche Girless e Dead Poet Society avevano suonato da soli; a Ginetta era piaciuti un sacco i DAGS, a Gino i Suvari; grande successo per gli Afraid; HEXN viaggione; i Futbolìn hanno cantato una canzone che faceva “l’inverno sta arrivando, rigido!” che ha dato un po’ di speranza a tutti. Poi G&G scoprirono che c’era pure una compilation su Spotify.

Verso mezzanotte, quando era il momento di tornarsi a casa, il mantello refrigerante era scomparso, perché oltre a refrigerante era anche permaloso, appena arrivava un po’ di fresco di sera si sentiva inutile e se ne andava. Poi, senza fiammella-porta, come potevano fare a tornare non lo sapevano, dovevano chiedere. Forse bisognava passare attraverso la Fiamma Imperatrice. No, se passi da lì, muori. Nessun problema, tanto avevano sentito dire che c’era una fattoria con piscina convenzionata con l’Italian Party 100 °C e potevano passare una notte fresca lì.

L’indomani
Autostop.


“Tutti volere supporter pack di Italian Party 2018
(cit. Orso Grigio)

* ma i Gazebo Penguins purtroppo hanno annullato la data.

21 facce (circa) per 21 gruppi: Italian Party 2017

Docente di storia della fotografia, il professor Marra non esprimeva mai un giudizio sulle cose che spiegava ma si sputtanava irrimediabilmente con il tono della voce. “Non c’è un modo migliore dell’altro, la fotografia concettuale non è meglio di quella classica” diceva, ma le 5 parole che separavano “concettuale” da “classica” erano per lui come un percorso verso l’inferno della noia. L’opinione sincera la lasciava al non detto, che più o meno era “ma se t’intrippi con la concettuale, ti cambia la vita”.

Visto che tra le sue malcelate fotte c’erano i ritratti, quelli senza tanti fronzoli, il giorno in cui ci parlò di Portraits di Thomas Ruff giuro che almeno un paio di volte gli è venuta la voce rotta. La lezione del prof. era: lo sguardo impassibile di TR rende i soggetti anonimi, aiutato dai fondali monocromatici, dai vestiti da Germania Est anni 80, da colori spenti ed espressioni neutre.

Non ricordo se li avevo anche allora, ma adesso ho dei dubbi su quell’interpretazione. Quei ritratti non sono solo piatti per come sono costruiti, sono anche esplosivi per l’effetto che fanno. È la confusione delle dimensioni: Thomas Ruff ha fatto di tutto per rendere le foto monodimensionali, ma l’ha fatto per ottenere qualcosa di penetrante. Questi ritratti non sono “anonimi”, perché c’è una cosa che rompe in modo continuativo e definitivo l’anonimato: ci sono le facce. E non solo perché sono “facce”, quelle che trovi anche nelle carte d’identità a identificare ognuno di noi. Il piattume di tutte le altre componenti delle foto ci permette di concentrarci solo sulle facce. Ed è a causa della faccia che un ritratto non può mai essere completamente inespressivo perché la faccia, anche con l’espressione più neutra del mondo, dice sempre qualcosa.

Tendo a fare foto alle persone di nascosto. C’è il pericolo che mi scoprano ed è piacevole, perché la percentuale di rischio che corro è molto bassa. Trovare il matto che mi becca e mi mena perché gli ho fatto una foto senza permesso è raro, al massimo mi guarda male. Al peggio, mi è capitato che mi inseguisse, per farmi a sua volta una foto come per, boh, spararmi con la stessa pallottola. La componente pericolo è niente se confrontata con l’ansia di chiedere il permesso. Il problema dei ritratti sta nel fatto che il permesso lo devo chiedere per forza. Quando si tratta di sconosciuti, a volte lo chiedo, altre rimango senza foto. Con gli amici, non ho grossi problemi. Sentirsi fare questo tipo di richiesta fa spesso scattare nella persona che deve essere fotografata un’emozione difficile da gestire, tra egocentrismo e vergogna, correnti opposte ma ugualmente selvagge che, scatenate in un unico momento, portano a un’indecisione folle. Alcuni la riescono a vincere, altri no. Tra quelli che la vincono, c’è chi dice comunque no. Ma ci sono anche quelli che dicono si.

Ho in mente come se fosse ieri il momento in cui Marra ha proiettato nel buio dell’aula il primo ritratto di Thomas Ruff che io abbia mai visto. S’intitola Peter Martin. Quando sono uscito dall’aula, mi sono infilato gli auricolari e ho ascoltato Sultans of Sentiment dei Van Pelt, quasi tutto, sulla strada di casa, con la faccia di Peter Martin davanti agli occhi. Quante cose ci sono al mondo così legate tra loro che se pensi a una ti viene in mente l’altra e viceversa? Non so, magari ce ne sono un treno, ma io sono particolarmente fiero di questa. Ogni tanto i ritratti di Ruff mi tornano in mente e mi torna in mente anche che sono legati a quel disco. E viceversa. Spesso riascolto quel disco e allora mi torna in mente Thomas Ruff. Poi, a volte, mi torna pure la voglia di fotografare delle facce.

Con abbastanza piacere, da qualche anno preparo qualcosa per parlare un po’ dell’Italian Party, il festival di To Lose La Track. Quando ho iniziato a pensare a cosa avrei potuto fare quest’anno, all’inizio non ne avevo idea, poi mi sono tornati in mente Sultans of Sentiment e Peter Martin. E all’inizio volevo fare delle magliette con i nomi dei gruppi che suonano al festival, una per gruppo, farle indossare a persone diverse e far loro una foto. I passaggi per raggiungere il risultato erano affrontabili, ma la percentuale di rischio che le magliette venissero uno schifo era molto alta. E ho rinunciato. Che poi perché le magliette, non so. Cioè, lo so, è perché adesso vanno tantissimo, ma alla fine vaffanculo. E se non fosse stata la mia fidanzata a darmi l’idea dei cartelli, forse avrei scritto un pippone sui gruppi e basta, che sarebbe stato sicuramente peggio, o forse no, anche perché il pippone l’ho scritto lo stesso. Comunque, abbiamo spiegato la cosa ad alcuni amici e gli abbiamo chiesto se avevano voglia di farsi fotografare. Hanno detto tutti Siiiii. Le idee migliori che mi vengono sono sempre quelle degli altri, anche perché hanno un senso. Quest’idea aveva un senso addirittura nei miei ricordi, dove i Van Pelt incontrano Thomas Ruff e la musica con le chitarre incontra il ritratto fotografico

Ad alcuni ho fatto io la foto, ad altri ho spedito il foglio e se la sono fatta da soli, o se la sono fatta fare. Band distribuite (più o meno) a caso, una sola regola: che si vedessero il nome del gruppo e la faccia. Alcuni mi hanno fregato ma l’idea c’è. Una faccia, un gruppo. Niente di concettuale quindi, ma la faccia è sempre la faccia. Scusa, Marra.