Sunday Morning, Let it Burn

 

20170122_131555

Alcune volte pensi di lasciar perdere. Ti rendi conto dei tuoi limiti, o anche solo della fine. Poi passa del tempo, qualcosa magari si riaccende e allora riparti. Per un attimo, o di più, trovi le parole giuste e va tutto come un treno. I Sunday Morning a un certo punto hanno smesso. Poi sono tornati. Queste dinamiche sono frequenti, funzionano diversamente per ognuno di noi e non possono essere descritte semplificandole. Però hanno in comune una cosa: la necessità. Non sempre uno è in grado di gestirla, e allora, a un tratto, come se il bisogno non esistesse più, si stacca la spina. Il bisogno non è che torna, perché (magari) c’è sempre stato, ma può diventare imprescindibile. Dopo anni che (boh) uno si chiedeva chissà se succederà, dopo qualche voce, qualche prova a fondo perduto e un concerto, arriva il 2015, primavera inoltrata, e i Sunday Morning fanno uscire Instant Lovers, autoprodotto. Da fuori sembra il risultato di una fatica estenuante e non mi aspetto altro, almeno a breve. Invece no: a fine 2016 esce Let it Burn, per Bronson Recordings. Quanto possono essere fiume i ritorni, a volte.

La differenza tra i due album segna uno scarto in positivo. Mentre Instant Lovers è molto tirato, come l’ha definito bene Paso (che ha scritto questa) e ha pochi momenti in cui la tensione diminuisce, Let it Burn spara ritmi, senza però dimenticare di descrivere al loro interno quella vena triste che alla fine rappresenta il tocco. È proprio la maggiore profondità dei suoi pezzi a rendere concretissimo il passo in avanti di Let it Burn. Che inizia con Carry Home, dimostrazione senza mezzi termini di quello che ho appena tentato di dire.
Ho cercato nel disco qualcosa che parlasse di ritorno ma non l’ho trovato. Ci sta, perchè il ritorno era Instant Lovers. Il disco nuovo, invece, va avanti. E lo fa cambiando sempre direzione, una canzone dopo l’altra, confermando così quella capacità di scrittura già evidente in Instant Lovers ma dimostrando anche quella fantasia compositiva che al disco precedente era mancata. Ogni pezzo è forte di una bella melodia (migliori tre: The Loneliest Boy On Earth, Ask the Magician Stories From A Small Town) e di quella vena triste che corre sotto, ma neanche tanto sotto (Creatures vince la corona della tristezza malcelata). I riferimenti (Big Star, Neil Young, Beatles) sono sempre quelli ma è più difficile riconoscerli: i Sunday Morning, semplificando e rendendo più ripetitivi gli arrangiamenti, fanno del songwriting una roba loro, in cui riescono a conciliare due cose apparentemente inconciliabili. Da una parte, spingono sempre tantissimo sul pedale dell’entusiasmo, dall’altra fanno in modo che il disco restituisca in ogni momento una sensazione di calma. Adesso te le suoniamo per bene queste canzoni però, man, easy. Sembrano dire così. E all’apice della tranquillanza suonano Plans, un levare. Cazzo, un reggae. Ma come ti viene di fare un reggae?

Il disco, però, lo chiudono belli seri. Con Should I, in cui confluiscono vena di tristezza, melodia e ritmo, e Through The Eyes Of My Love, una ballata blues no batteria, all’inizio pulita come il Nick Cave più pulito, poi, quando la voce s’imbruttisce, zozza quasi come Mark Lanegan.

Riding Place era una canzone strepitosa dei Sunday Morning del 2005, finita nel primo disco Take These Flowers to Your Sister (Midfinger e Ghost Records), prima dello stop. Era IL PEZZO dei Sunday Morning. Lo stop ha portato a Instant Lovers, che mi ha lasciato nelle mani un punto interrogativo grosso così, poi a Let it Burn, che l’ha risolto quell’interrogativo, almeno per ora. Let it Burn abbandona per sempre l’origine emo di QUEL PEZZO ma in alcuni momenti ne raggiunge il livello. E ne riprende anche la cadenza: alla fine, pare proprio che il passato in qualche modo debba ritornare e che non possiamo mai liberarcene davvero (creepy). Però possiamo fare lunghi passi in avanti. E i Sunday Morning, questa volta, ne hanno fatto uno.

sundaymorning1.bandcamp.com

La scuola che diventava la sala prove

riga_rossa01

Ogni anno, pochi giorni prima di Natale, c’era il concerto, quel giorno all’anno, fino a poco più di 10 anni fa, in cui dal pomeriggio alle 3 fino a sera tardi molti dei gruppi locali suonavano uno dopo l’altro. Prima succedeva al Carisport, dopo al Vidia di Cesena. A un certo punto il festival, che si chiamava come l’Associazione che lo organizzava, e cioè Il Suono degli Spazi, non si fece più e qualcosa è morto. Se andate al Vidia domani sera, sulla parete di destra del corridoio d’ingresso ci sono ancora tutti i nomi dei gruppi che hanno suonato nel locale e nell’elenco ci sono anche quelli del SDS.

Non era solo il concerto, ma anche tutto il resto. C’era la sala prove e lo studio di registrazione, in una ex scuola a Bagnile di Cesena, e il fatto che quando ti infilavi in quella ex scuola una cosa che facevi di sicuro era stare bene. Io ero tra i più piccoli, tra i più grandi c’era qualcuno che non mi stava simpatico, ma era inevitabile. Il Suono degli Spazi svolgeva il lavoro che oggi svolgono, per le realtà musicali indipendenti, i gruppi, le etichette, insieme a quello che svolge il promoter, insieme a quello che svolge l’agenzia di booking, insieme a quello che fa il service. Non ci si faceva caso, ma il SDS era una specie di cazzutissimo miracolo in cui le competenze di ognuno venivano valorizzate al massimo perché ci si sbatteva affinché le cose riuscissero molto belle con poco denaro. La tessera annuale del SDS costava 10.000 lire, o giù di lì, il SDS viveva di questo finanziamento, dell’affitto della sala prove e di alcuni soldi provenienti dal Comune. Con quella tessera e usando la sala prove contribuivi in parte a tenere in piedi l’organizzazione. Io ero solo iscritto e frequentavo la sala, poi mi sarà anche capitato di trasportare da qui a lì un asta microfonica, ma c’era gente più grande di me che frullava per fare le cose, per il proprio gruppo e per gli altri gruppi.

Fare il demo era l’aspirazione di tutti, fare il cd era quella di alcuni, i più grossi. E a fare il demo o il cd, a suonarli o ad assisterli tecnicamenenete, c’erano le stesse persone che scaricavano il pulmino, che rispondevano al telefono per prenotare gli orari e che suonavano la chitarra, il basso o i cimbali in un gruppo o nell’altro. Una situazione che si verifica ancora, si; per questo significa che è una formula valida, mi verrebbe da dire esplosiva, nel senso di un tot di persone che si conoscono e che un po’ si vogliono bene, si mettono insieme e realizzano qualcosa in cui credono tutte.

Non so se sto per dire una cazzatta, però essere anche una piccola parte di un’esperienza musicale di questo tipo ti forma, ti dà un’impronta che ti rimane, o almeno a me è rimasta. Ma è rimasta anche ad altri, perché alcuni li vedo in giro per concerti a fare lo stesso lavoro nonostante la vita gli sia cambiata e anche molto. Non so se era lo standard, ma ricordo altre realtà simili ma più grandi in città più grandi e in particolare ricordo Torino.
Adesso le situazioni che possono essere simili all’SDS sono anche altro, ma sono anche sempre la stesse, forse i compiti sono più divisi, ci si è specializzati (chi fa booking, chi fa service, che produce), ma l’idea del fare tutto, tutte le cose, tutto il possibile, per se stessi e per gli altri, mi pare (ho amici che si sono più dentro, io ascolto) ci sia ancora. E’ una cosa più complessa di così, qui mi limito ai ricordi, come impone il sottotitolo di Neuroni di questa settimana, ma magari più avanti ci torno sopra, con l’aiuto di qualcun’altro.

Un po’ di storia del Suono degli Spazi l’ho scritta per VisitCesena forse 1 o 2 anni fa.