Le mie cose preferite di ultimamente

Una leggenda della Valle del Rubicone dice che le chitarre potrebbero essere la causa scientifica dei fantasmi. Nonostante questo sarebbe bello che su questo blog riuscissi a tenere in piedi una rubrica non dico settimanale ma almeno bi-settimanale in cui scrivo quello che ho ascoltato e che mi è piaciuto, oppure no. Sarebbe comodo, mi rimarrebbe tutto qui. Per la maggior parte delle cose si tratta di gruppi con la chitarra, quindi ad alto rischio di infestazione. Nonostante la maggior parte delle cose che ho ascoltato negli ultimi dieci/quindici giorni facciano riferimento a modelli più o meno evidenti di venti anni fa, molte mi sono piaciute e ho trovato soddisfazione ad ascoltarle, quindi penso valga la pena scrivere qualcosa a riguardo. Per esempio quasi tutte le mattine mentre vado al lavoro ascolto, infrangendo la legge perché mi metto gli auricolari mentre guido, I’ll make you sorry degli Screaming Females. Mi succede da quando ho visto il concerto un paio di settimane fa al Bronson. Sono stati veramente una bomba, ma non una bomba come si dice di solito (cose tipo “bombetta”) ma una bomba vera e propria. Marissa Paternoster con un cognome così non poteva che suonare la chitarra da dio (forse è un nome d’arte, non so). In realtà il suo stile e il suo sono sono un po’ anni ’80 – e questo mi rende fiero perché mi fa uscire dal mio decennio comfort (gli anni 90) – tipo i Jingo De Lunch.

Che mi piacevano un casino, anche se non sono veramente così vecchio. Il bassista degli Screaming Females, invece suona un po’ come Lou Barlow nei Dinosaur Jr. E a proposito di Dinosaur Jr, ho notato una differenza fondamentale tra gli assoli di Marissa e quelli di J Mascis. Per quanto io sia un fan di quest’ultimo, e continua a capitarmi di ascoltarli godendo, i suoi assoli potrebbe suonarli anche in separata sede, nel senso che il loro contributo alla canzone non è elevatissimo, almeno nella misura in cui sono abbastanza simili da tanti anni. Magari i primi, ma poi nel momento in cui cambiano le canzoni e gli assoli no, rimangono indietro. Il mondo va veloce e tu stai indietro, come dice Tiziano Ferro (non dite a nessuno che ho accostato Tiziano a Mascis). Questo succede sia sui dischi sia dal vivo. Ogni assolo di Marissa invece tira su la canzone come se fosse una madre che tira su il figlio dal letto alla mattina per andare a scuola. È la punta dell’iceberg, e come tale è decisiva per arrivare in alto. Me ne sono accorto davvero solo dopo il concerto, al loro settimo album. Ma è perché sul disco, neanche su quello prodotto da Steve Albini, la chitarra fa quell’effetto.

Sempre in tema di grandi ritardi, ho scoperto i Savants, la cui ultima uscita risale al 2016. Non mi convince tutto quello che hanno fatto (troppo sixty e molto organo, non sono neanche su discogs, ma su spotify si… discogs è ancora utile?) ma Dutch Priest, per quanto il titolo sia preoccupante, mi piace molto, perché è folk indie rock sperimentale nella direzione di Spencer Radcliffe.

La mia canzone della settimana però è I wanna be Tim Tebow dei Where Is My Spaceship. Non c’è cosa più anni ’90 e Nirvana di questa e mi pace un sacco. Dice “I don’t wanna get a day job, I don’t wanna go to college eccetera” che non è esattamente una cosa che si adatta a uno della mia età, ma insomma le distorsioni di questa canzone sono esaltanti e l’ho messa anche nella rubrica nelle stories “Palza Major” che faccio sempre su Instagram ultimamente (andate a vederla, è incredibile, mi chiamo Neuroni_blog). Bello anche il disco DIEFAILING, del 2017.

Poi ci sono due gruppi che mi piacciono ma non proprio un casino. Il primo, sono i Mammoth Penguins, che sono un’eredità dell’Athens Pop Fest dell’estate scorsa (di cui ancora devo scrivere un in morte, chissà se mai lo farò, per il troppo dolore) perché sono il secondo gruppo della bassista dei Suggested Friends che hanno suonato al festival, che mi piacciono tanto (disco stupendo, registrato da dio tra l’altro) e di cui ho da poco comprato on line una felpa sbagliando la taglia. L’ho presa troppo grande e adesso sto facendo dei lavaggi gradualmente a temperatura più alta per cercare di rimpicciolirla senza sfasciarla. Il primo a 40° ha funzionato, un po’. Fatemi gli auguri per quello a 60°. I Mammoth Penguins hanno fatto uscire una canzone nuova proprio questa settimana ed è meglio della precedente (tra poco esce il disco nuovo). È molto delicata, ma è scritta e suonata bene: si chiama Closure.

Il secondo gruppo che non mi piace proprio un casino ma mi piace ascoltare si chiama Doe. Fanno indie rock a volte troppo simile a cose già sentite (Speedy Ortiz) altre volte potente e bello piacevole.

Poi, alla fine di questa indispensabile rassegna abbiamo due giganti secondo me, uno risalente all’età della pietra, l’altro no. Sto parlando dei Guided by Voices, che hanno fatto un disco con le canzoni di una volta, della lunghezza punk rock ma non punk, proprio sue. Di Robert Pollard intendo, che è molto in forma, non trattatelo mai più come un anziano, dà della polvere a molti giovinastri in quanto a idee per la chitarra. Poi ci sono le Tacobellas (un po’ più giovani), che hanno fatto uscire da poco Total 90, un disco potentissimo che va dai Man Or Astro-Man? a Jon Spencer a un sacco di altre cose che ricordano gli anni novanta. Ma queste sono due pazze, simpaticissime, col fuoco in testa e nelle braccia, io modestamente le seguo dai primi demo (un anno fa), fatelo anche voi.

Alla prossima schedina degli ascolti.

Spaccarsi con un disco: “Gone” di Bill Baird

Bill Baird

Un santone, un texano, un biondo: Bill Baird

Raramente un disco mi mette in pace con la lotta tra passato e presente. Succede quando pensieri tipo “vorrei ascoltare roba che suona nuova, però insomma mi va di ascoltare anche una cosa più confortevole” non contano più. Niente dubbi e niente domande, sono talmente sicuro di quello che sto ascoltando da non avere distrazioni.

Gone di Bill Baird mi ha fatto questo effetto.

È un disco super equilibrato, ma non equilibrato nel senso di noioso, equilibrato nel senso che sembra perfetto. Dentro ci sono i Beatles, Evan Dando, Elliot Smith. Ma non sono lì a far da specchietto per le allodole per chi è affezionato a questi modelli, Gone è anche suonato da dio ed è evidente la bellezza della forma che prendono le chitarre e le melodie, gestite con calcolo e posizionate nel posto giusto al momento giusto, sempre, con una cura maniacale del dettaglio che le compone. In questo modo, quelle forme acquistano autonomia, ricordano altro MA hanno una vita tutta loro.

Eppure, ogni cosa suona semplice, niente sembra eccessivo o troppo studiato. Questa si chiama classe, fare le cose bene senza essere dei pesantoni. Non è facile. Ed è questa semplicità, risultato di una precisione filologica e libera, originale allo stesso tempo, che fa sì che il disco abbia una parvenza di perfezione. Descritto così, sembra un disco odioso, ma è esattamente il contrario.

Delle batterie si può assolutamente dire che siano midi, insipide, ma non avrebbero potuto essere diverse. Occupano gli spazi che devono occupare. Poi ci sono quelle parti di testo, vere e proprie fiammate, che arrivano all’improvviso in mezzo a tutte le altre parole e dicono una cosa che mi uccide. Succede due o tre volte. La migliore è “there’s no past and there’s no future, there’s only today” (Live That Way). Non è una frase del cazzo buttata lì perchè suona bene, non è un’affermazione retorica e scontata, ma è il risultato di un percorso, che diventa evidente dopo aver ascoltato i due dischi precedenti di Bill Baird, Straight Time e Baby Blue Abyss, un po’ più schizoidi. In Gone la ricerca del futuro nella sperimentazione s’interrompe. Si sguazza nel passato, ma senza paura, perché l’unica cosa che conta è il presente e se nel presente vengono fuori queste canzoni, va bene così. Ed è questo approccio ai modelli del passato che dà freschezza al disco: preparazione, sapere quello che si sta facendo, farlo bene, ma senza il tocco del sapientone.

Gone è una sorpresa e una sicurezza allo stesso tempo, è la quotidianità e la rarità insieme. Tante persone si annoieranno a morte ascoltandolo. Secondo me è un disco con cui è giusto spaccarsi. Spaccarsi con un disco è come quando una volta per merenda ti mettevi sul divano e ti spaccavi di Macine del Mulino Bianco mangiandone metà confezione a tempo di record. Vuol dire ascoltarlo fino a non poterne più lì per lì, ma rifarlo il giorno dopo. Finchè ti va. Ascolti anche altro, ma alla fine torni sempre a sentire quello, perché in quel momento è il massimo. Adesso non mi spacco più di Macine, perché è una cosa che ti puoi permettere quando sei più giovane, ma continuo a spaccarmi con dei dischi, quando capita il disco adatto. Può durare qualche giorno, e allora è un amore fulminante, qualche settimana, e allora è un amore già più intenso. Oppure può durare qualche mese, e lì inizia a diventare una questione piuttosto seria. A volte dura anni, o tutta la vita, ma in quei casi non è più “spaccarsi”, lì sono i dischi della vita, che è un concetto superiore. Quando ti spacchi con un disco, il discorso è sempre limitato nel tempo, lo fai per un po’ poi passi oltre. È giustissimo che sia così, perché non tutti i dischi con cui ti spacchi diventano della vita, ma un segno te lo lasciano. Le Macine nello stomaco a fine round ti lasciavano quella pesantezza fastidiosa di latticino vivo, un disco con cui ti sei spaccato, quando lo abbandoni, ti lascia un piccolo vuoto ma sei comunque felice di andare avanti e trovarme un altro da ascoltare a ripetizione. Ci tengo a sottolineare che “spaccarsi di una cosa” ha sempre un’accezione positiva, perché farlo ti piace.

Piccola nota grammaticale: per le Macine o qualsiasi altro cibo con cui decidi di spaccarti si usa “spaccarsi di”, sempre. Spaccarsi di Gocciole, spaccarsi di noci, di gallette, di patate, di salsicce. E non si dice mai “spaccarsi con”. Avete mai sentito dire “vado a casa a spaccarmi con le patatine”? No. Per i dischi, invece, si usano tutte e due le preposizioni. Più precisamente, si dice “mi sto spaccando con un disco” (generico) ma si ricorre a “di” quando si fa riferimento a un disco preciso: “in questi giorni mi sto spaccando di Gone“.

Non è che ascolto la tua musica perchè sei un artista

cover

Detesto quando vedo un concerto e l’atteggiamento di chi suona è eccessivo. Non so, metti il caso che io stia aspettando che qualcuno inizi a suonare e senta dire “non sono solo musicisti, sono artisti a tutto tondo”, strippo subito. A tutto tondo. Perchè m’immagino uno di quei concerti in cui il cantante si arrotola le braccia intorno alla faccia, dice cose con quell’aria sempre très fatigué, fa un passo in avanti ed è così concentrato che è evidente che crede di aver generato il movimento perfetto, insomma non la smette un secondo di fare un sacco di mosse, e io mi smarono subito.
Nei casi più gravi, non c’è bisogno di andare al concerto, basta ascoltare il disco per immaginarsi lo spettacolo: fa tutto la musica. Che, quindi, è significativa. Ma non lo è in sé. Lo è perché esprime dei riferimenti più o meno espliciti a qualcosa, a un altro cantante, a un mondo, che l’artista imita per fare in modo che chi lo ascolta lo riconosca come parte di quel mondo e per piacergli. Ma gli piace per merito di qualcun altro, o di qualcos’altro, non per quello che è stato in grado di costruire.
Su disco o a un concerto, a volte è come se le canzoni fossero composte da due livelli, la cui importanza è ribaltata: quello meno importante è la musica, quello più importante diventa tutto il resto, espressione del voler essere, del volere mostrare a tutti i costi di essere strani, disturbati, contorti, simpatici, antipatici, poeti, artisti in qualche modo. Mi sembra di poter dire che, se c’è tutta questa necessità di mettersi in mostra, manchi qualcos’altro su cui bisognerebbe invece concentrare l’attenzione, cioè il talento.
È tutta una sovrastruttura che non c’entra niente con la musica in sé, ma ha a che fare con il volere dare una determinata immagine di sé. La musica non riesce ad avere la stessa importanza dell’atteggiamento, a volte perché 1) è troppo poco interessante, altre perché 2) le pose sono così fastidiose da ucciderla. Il fatto che la musica non sia un granché (caso 1) spinge l’artista a sovrapporci qualcos’altro per renderla apparentemente più completa. E questo prevede la consapevolezza da parte dell’artista. Potrebbe anche essere, invece, un’azione inconsapevole, nel senso di ingenua, cioè uno si crede artista perché ha scritto una manciata di canzoni e allora si muove da artista, parla da artista, canta da artista eccetera. Oppure si crede anche scrittore perché è un artista a tutto tondo (e qui si verifica spesso il caso 2).
Fai musica per fare il teatro o fai musica e ti scappa fuori anche un po’ di teatro? Abbiamo tutti una scala di valori diversa, ma io, quando ascolto un disco o vedo un concertino, vorrei prima di tutto sentire della musica e non essere infastidito dal cantante. Uno può avere anche altro da dire, la musica può stargli stretta, e questo può essere ok, ma i casi in cui tutto riesce bene sono rari.
Giù dal palco, la pantomima potrebbe continuare. Non sopporto quei musicisti che quando parlano devono per forza farti capire che sono artisti, anche se li incontri al cesso di una discoteca. Fenomeno calmati. Se proprio lo desideri, potresti essere considerato artista anche solo perché scrivi bene le canzoni. Pensaci. Preferisco quelli che fanno della legna e non si vede che la fanno, si sente e basta.