“Immaginò che il barista gli avesse chiesto cosa voleva da bere, ma se non fosse stato così? Magari gli aveva detto che il bar era chiuso, oppure lo aveva insultato, o invece aveva voluto informarsi sul suo stato di salute. L’idea che il linguaggio funzionasse, anche fra due persone che parlano lo stesso idioma, gli parve all’improvviso miracolosa: bisognava concordare su troppe cose, avere in comune un terreno troppo vasto” (Cose che succedono la notte, Peter Cameron)
Non è facile che chi è nato o vive altrove senta la musica come un local. In qualsiasi posto del mondo. La musica è un linguaggio e perchè la comunicazione funzioni ha bisogno di un terreno comune fatto di storia, radici, abitudini. Anzi la musica è ancora più selettiva di una lingua: se vuoi la lingua la impari, ma non impari a essere davvero del Sud degli Stati Uniti, per dire. Ogni posto ha il suo Folk ed è difficile fare Folk americano in modo credibile se sei italiano. E il contrario: immagina uno di Buffalo che si mette a suonare il Liscio. Di fronte a questo tipo di appropriazione non ho una regola ferrea di comportamento, non amo tutto e non detesto tutto. Spesso la sento come una forzatura. Ma nel corso del tempo ho trovato alcune eccezioni, come Pinball Odyssey degli Spacepony.
In ogni passaggio di Pinball Odyssey il ritmo è realmente (scusate) surrounding: il lavoro degli strumenti, la loro cadenza e i loro movimenti occupano molto spazio nelle canzoni. Non è sempre così, ci sono quei dischi in cui presti più attenzione a quello che i singoli strumenti fanno e non vieni sopraffatto dal ritmo, che finisce per essere in secondo piano. In qualche modo. Qui no. E qui il ritmo è quello del folk psichedelico dolce e melodico, vicino a Mercury Rev e Flaming Lips.
Il ritmo di Pinball Odyssey è dato anche dall’attesa. Una delle sue caratteristiche è quella di tirare fuori all’improvviso strumenti inaspettati: dopo un po’ ti abitui all’idea che verrà fuori qualcosa, e lo aspetti. L’abitudine e l’attesa insieme ti danno la possibilità di ascoltare un contesto molto uniforme ma che riserva diverse sorprese. Cioè, oltre alle collaborazioni che contribuiscono a dare alle canzoni caratteristiche diverse, Pinball Odyssey ha un’impronta definita ma contiene sempre una tensione alla modifica del percorso, tensione che trova uno sfogo solo abbozzato, mai conclusivo. Un po’ alla Frittering dei Mercury Rev, ma in modo meno strutturato e massiccio. E questo dà luogo a una vibrazione di insoddisfazione che si trova in tutti i pezzi. Come se gli Spacepony avessero trovato casa dentro alla musica che fanno ma allo stesso tempo no. Credo che sia un’insoddisfazione ammissibile e vitale (di cui si parla anche in un passaggio del testo di Feel Alive: …”it’s hard to find peace, someday sometimes”..) che si verifica quando amiamo tantissimo una cosa che, però, non ci appartiene davvero per motivi che non dipendono da noi: quel tipo di Folk proviene da un mondo lontano, noi lo ascoltiamo o lo suoniamo perché lo sentiamo vicinissimo ma in realtà non lo è. E un po’ soffriamo questa cosa, anche se non lo ammettiamo del tutto. Soffriamo e non ammettiamo, ma lo ascoltiamo e lo suoniamo lo stesso. Da qui viene la tensione. Vuoi una cosa tantissimo ma non la potrai mai sentire tua davvero fino in fondo. Gli Spacepony, proprio negli attimi in cui gli sembra di riuscire ad abbracciarla, avvertono le differenze che li separano da lei, le rendono palesi e mettono in campo le loro deviazioni. E poi ripartono daccapo. È il modo in cui gli Spacepony affrontano il problema di un linguaggio musicale che utilizzano ma che proviene da lontano e non gli appartiene del tutto. È un modo consapevole e senza paletti legati ai generi: non fanno un genere solo, non fingono che quel genere gli appartenga ma lasciano che la scrittura prenda la sua strada. E la prende, verso direzioni in cui i generi si sovrappongono e creano una varietà così evidente di elementi che non sai più che genere sia.
Ogni canzone mi ha dato sensazioni differenti e in questo sta la forza della varietà di Pinball Odyssey. Did You Hear the Horses Winny mi ha portato dentro a un western e non me l’aspettavo. Butterfly (2nd Life) mi ha colpito per la sua delicatezza e per la bellezza degli archi: è un incrocio tra Sparklehorse e Big Star. L’apertura di El Sol è molto bella e chitarra e batteria si sposano benissimo seguendo una stessa delicatissima strada. Il ritornello di Back Home è forse il migliore di tutto il disco, perchè le sue sonorità portano lontano: bastano poche note per aprire un mondo. Adoro il theremin e mi piace il modo in cui viene usato in Killie Willy, la cui seconda parte mi ha ricordato le ballate più fantasmagoriche di Mark Linkous (ancora). Il disco cambia un po’ passo con She-Fi, che non mi fa impazzire. Forse è un problema di missaggio (ma non lo so perchè non me ne intendo): mi pare che gli strumenti siano venuti fuori un po’ scollati tra loro.
Feel Alive lega il suono quasi cupo della chitarra a una melodia molto dolce e sulla parte finale lo fa sovrapponendoli a suoni e strumenti che ti spingono via dai territori esplorati finora nel resto del disco. L.I.A.R. è una canzone dei fIREHOSE con un tocco di Pinball Odyssey e questo testimonia la perfetta unione tra Spacepony e Mike Watt. Invece, in Perfect Machine, c’è qualcosa che mi ricorda gli Eels, forse la durezza simpatica del modo di cantare e delle parole. E le seconde voci sono davvero un tocco di classe, come il finale, in cui sembra sentir parlare R2D2 di Star Wars. Cosmic Waltz è l’episodio più romantico, spaziale, probabilmente anche più divertente e rilassante del disco, con gli archi sul finale che ricordano una danza in un palazzo imperiale in un film ambientato nell’800. Sensazioni, immagini e direzioni inaspettate. Back to Summer è la conclusione ideale. In ferie mi piaceva ascoltarla a fine giornata, perchè è nostalgica ed è perfetta per dire ciao a qualcosa che non è definitivo ma comunque è finito. In questo caso avrei fatto a meno degli archi sul ritornello.
Pinball Odyssey è un disco di Folk utopico, con riferimenti saldi ma anche con il desiderio di andare altrove, verso un mondo non realizzato e forse non realizzabile, comunque certamente personalizzato, che non abbia solo radici ma anche e soprattutto fantasia. La fantasia che lo fa vibrare di insoddisfazione e amore allo stesso tempo.