Prova a prendermi. Brian Wilson che fa tutto Pet Sounds

Ok, non è più in forma come una volta

Una cosa che ho fatto nel 2017, e che penso non farò mai più, è vedere Brian Wilson dal vivo. In maggio io e la mia morosa siamo andati a Los Angeles in vacanza, un mese prima abbiamo saputo che avrebbe suonato Pet Sounds in it’s entirety e abbiamo comprato i biglietti con tanto di “ma quando ci ricapita”, “ha rimasto due pisciate” e cose così, delicatissime. Per scoprire, cinque giorni dopo, che avrebbe suonato anche a Perugia in luglio. Ma quando ci ricapita di vederlo a San Diego? Era l’interrogativo per convincerci di aver fatto la cosa giusta di riserva. San Diego è quasi la casa dei Beach Boys, che sono di Hawthorne nella Contea di Los Angeles, a due ore di macchina da San Diego. È come dire che se io sono di Gatteo e suono a Reggio Emilia sono praticamente a casa? No, però mi hanno sempre raccontato la California degli anni ’60 come un unico grande cilum, quindi lo prendo per buono e la considero un’unica grande casa. Ma gli anni sessanta sono finiti, io non li ho nemmeno mai visti e per i due poveri turisti di Gatteo che se ne vanno a fare un giro a Los Angeles in primavera e prendono una macchina per andare a San Diego, Los Angeles-San Diego non è proprio a un tiro di schioppo. Tempo stimato: due ore. Tempo effettivo: quattro.

Brian Wilson suonava al Civic Theatre, non con tutti i Beach Boys ma (della formazione originale) solo con Al Jardine, e con Blondie Chaplin, nei Beach Boys dal ’72, più un triliardo di altri musicisti. È un mondo lontano, la California fricchettona degli anni ’60 non mi è mai piaciuta, ho sempre rivolto la mia attenzione verso altre cose, le droghe non sono mai state una mia passione, Jim Morrisson non è mai stato il mio mito, anzi l’ho sempre sfangato poco, la rivoluzione culturale è un argomento interessante si, ok, ma parliamo d’altro per favore, col ’68 i nostri professori al liceo ci hanno fatto una testa così. Ma Pet Sounds, anche se è totalmente a mollo in quel periodo, va oltre tutto questo. L’ho ascoltato migliaia di volte, tra i rocker della mia città negli anni ’90 c’era chi lo tirava sempre fuori in quel modo che solo noi romagnoli sappiamo usare: cioè, petssaund… Ma a me non me ne fregava un cazzo del perché loro consideravano bello quel disco, se la menavano, alla fine del discorso rispetto al disco erano più importanti loro e le loro voci fastidiose. A me piacevano le canzoni, la malinconia e la gioia, e anche la noia, quel modo di tirarla per le lunghe con le ripetizioni, le melodie eterne.

Quindi, il giorno del concerto ero abbastanza in botta dal mattino alle 10, seppure dovessimo partire alle 3 del pomeriggio, giusto per stare dalla parte del sicuro. Eravamo in giro e abbiamo anche trovato da dire perché io ero un filo carico e cose così. Ci siamo messi in macchina alle 4, presto, considerando che il concerto iniziava alle 8:30. Per fortuna, perché sulla statale tra Los Angeles e San Diego capita un incidente ogni 100 metri: cinque ne abbiamo beccati. Io ero preoccupatissimo. Google Maps ha sempre funzionato, abbiamo cambiato statale per poi rientrare e poi cambiare e rientrare ancora e siamo arrivati al Civic Theatre di San Diego un po’ in ritardo. È iniziato da mezz’ora ci hanno detto all’ingresso, mentre ci accompagnavano ai nostri posti, sulla balconata. Presa male eccetera. In pochissimo tempo però la presa male per il ritardo si trasforma in presa male per la paura del concerto-pacco, perché stavano facendo tutte le canzoni peggiori dei Beach Boys in una versione cinghiona. Mi dispero, chiedo scusa alla mia morosa che in realtà era contentissima, mi guardo intorno, sono circondato da matti che urlano, età media 70 anni, poi.. il concerto s’interrompe. Che cosa succede chiediamo a un signore anziano accanto a noi. “C’è la pausa” (e per fortuna ho pensato, sennò ti scoppia il miocardio) “e poi il secondo set con Pet Sounds in it’s entirety” (sentirlo dire da un americano era una meta che speravo di raggiungere prima o poi nella vita). Grande bolgia, cenetta coi fiocchi (patatine nel sacchetto) nel foyer, caffè, pisciata e si inizia.

In realtà, una delle cose più belle della serata è stata la pausa nel foyer. E io mi sbagliavo di grosso. La prima impressione aveva confermato quello che mi aspettavo quando ho preso i biglietti: un concerto per vecchi. Ma allora perché li hai comprati se pensavi questa cosa supponentissima? Solo perché non ho resistito al fascino di Brian, il grande musicista rovinato dalle droghe, dalla depressione e dalla cattiva gestione del patrimonio economico accumulato negli anni. Quello che vedevo nel foyer mi dava torto marcio.
Ogni tipo di fan senza vergogna dei Beach Boys era in quella stanza, dal settantenne rimasto pee sempre al momento in cui ascoltò per la prima volta Pet Sounds, al ragazzino che invece di ascoltare Kanye West si trova un pomeriggio in casa col padre che, dopo una presentazione sbrodolante in cui per poco perde la ragione, gli fa ascoltare Pet Sounds sul piatto del suo preziosissimo Technics di sticazzi, stampa originale, comprata nel negozio che ha chiuso con l’avvento dell’mp3 bla bla bla, e il ragazzino in barba a tutte le vere musiche rivoluzionarie che potrebbe ascoltare adesso, ci rimane secco con Pet Sounds, che non gli esce più dalla testa.
Dall’uomo anziano vestito da texano con la t-shirt del tour al tizio con la collana di fiori.
Dal ragazzo a cui si gliene frega di Brian Wilson ma tranquillo, ha accompagnato la sorella o il nonno, alla ragazza entrata al concerto per tradizione, perché comunque i Beach Boys sono circa di lì, lei è circa di lì, quel live è un evento, un po’ come il Fuori Salone da noi insomma.
Quindi, una grande festa si sta svolgendo nel foyer, mentre io cerco di fare una misera pisciata in uno dei bagni dei tre piani del teatro, tutti con una fila lunghissima di uomini di vario tipo. Ne ricordo in particolare uno, di mezz’età, con le infradito e il boxer a fiori come se di fronte a lui ci fosse l’oceano e non una fila di uomini che la tengono stretta. Quando sono tornato di sotto pronto a rinascere con la seconda esplosiva parte della serata, ritrovo la mia ragazza che parla con un’americana che naturalmente era stata in Italia e naturalmente l’aveva amata un casino. E, a luglio, Brian Wilson viene a suonare a Perugia, do you know Perugia? volevo dirle, ma ho lasciato perdere.

La prima parte del concerto era stata letteralmente dominata da Blondie Chaplin che pensava di essere sul palco con i Rolling Stones e in uno spazio di quaranta metri ha camminato almeno tanto quanto cammina Mick Jagger sui suoi palchi chilometrici. Infatti ho visto un Brian Wilson piuttosto contrariato dietro al pianoforte, le battute acido-simpatiche su chi fosse più popolare dei due sono venute giù come se fossero le note di Surfin’ USA, a grappoli. Al Jardine li guardava paziente. Era uno spettacolo per vecchi amanti di Venice Beach che potevo capire solo in parte, perché non avevo mai preso parte a quel mondo, l’avevo vissuto solo da lontano, letto nelle riviste specializzate, ascoltato nei dischi.

Ma dopo la pausa, la part I era diventata dentro di me già una specie di spettacolo ancestrale, con quell’aura mitica che si dà alle cose che non hai vissuto in prima persona ma qualcuno ha avuto l’accortezza di raccontartele e fartele conoscere da vicino. Come un ricordo del passato che all’improvviso si materializza di fronte a te, giovane sprovveduto, sul palco del Civic Theatre. A San Diego. Viva i cinghionismi, qualcuno sta facendo tutto questo per noi! Pensavo. Naturalmente non era vero, e questo rendeva ancora più bella la serata: tutto aveva la perfezione costruita di una messa in scena teatrale, ma era vero. Che razza di mindfuck. L’impressione negativa iniziale era scomparsa ed era diventata una goduria. Quando me ne sono reso conto, la mia mano stava aprendo la tenda di velluto rosso dell’ingresso in balconata e a quel punto ho visto il teatro a luci accese, invaso dalle persone che lo strariempivano e applaudivano sfasciandosi le mani, tutta l’orchestra sul palco e, all’improvviso, è partita Wouldn’t It Be Nice.

Brian non era per niente in forma. La sua voce era un filo sottile che sembrava vivere grazie a un’energia surrogata, pompato quasi da un alimentatore sistemato dietro le quinte per non far venire a meno la potenza necessaria a reggere tutto un concerto. Dietro di lui, quattro coriste e un cantante (figlio o nipote di qualcuno ma adesso non ricordo) coprivano i suoi vuoti di voce. Gli altri musicisti erano perfetti, super-rodati e ultra professionisti. Erano così produttivi, scoppiettanti e contenti (anche se praticamente stavano suonando con un antenato degli umani). Che noia, che barba, tutto perfetto, non sembrava dal vivo! Per niente invece, ogni canzone era un gioiello, pulita e liscia, come sul disco, si. E non volevo altro, non potevo volere altro, cos’avrei potuto volere? Di arrivare lì e vedere loro che fanno gli annoiati e cambiano le canzoni per tentare di divertirsi un po’ non ne avevo nessuna voglia. No, Brian Wilson che suona Pet Sounds lo volevo così, come se avessi messo su l’album in macchina, in più con un’acustica perfetta e un pubblico stratosferico da gran che era divertito e divertente. Il signore di fianco a noi era in formissima, niente infarto, almeno non prima della fine. Se va bene aspettava da anni quel momento. Questa sensazione, dell’evento gigante, era evidente, perché sembrava di essere a una grande festa di capodanno senza la stupidità di dover festeggiare un nuovo anno che sarà quello vecchio tale e quale, ma con la gioia di ascoltare la musica della vita, che ha accompagnato ragazze e mamme, nonne e nonni, padri e figli arrivati fino a quel momento. Una bomba di situazione. A metà del disco, più o meno a Sloop John B, la platea non esisteva più, a nessuno fregava più niente che ci fossero delle sedie lì nel mezzo. Prima di quel momento, ricordo una I’m waiting For the Day sognante, dove tutti guardavano il cielo (veramente alla mia destra c’era un signore che se la dormiva, ma ognuno ha il suo modo di farsi i viaggi) e adesso sembrava di essere a un concerto di Lady Gaga, con gente che si strappava i capelli sotto al palco e cantava le canzoni come dei singalong. Anche i giovani. Soprattutto i giovani. Cioè, fuori c’erano ambulanze pronte per tutti, eventualmente.

Dopo Caroline, no niente pausa, luci accese e dritto per i bis. Nessuno era stanco, tranne forse Brian Wilson, che comunque era ancora lì. Fino a quando c’è stata musica da suonare (38 canzoni in tutto, non sono neanche poche) è stato lì. Poi è schizzato via come una molla, veloce come la formica che deve rincasare per ripararsi dal pericolo degli umani che potrebbero schiacciarla, ma che il sindaco di gatteo mi tolga la cittadinanza se non ha tirato fuori tutto il fiato che aveva in gola.

Il nostro amico, il signore seduto di fianco a noi, ha fatto lo stesso (senza intascare il cachet): sull’ultima nota dell’ultima canzone, Love and Mercy, è schizzato via con la testa già sul cuscino, travolgendoci con una forza unstoppable. Forse aveva visto su YouTube altre date del tour e sapeva che quella sarebbe stata l’ultima. Col cazzo che vado in ambulanza adesso, vado a letto e domani, finalmente, vivo di questo ricordo, diceva la sua faccia. Noi due, per quanto ci riguarda, siamo rimasti a sedere un altro po’, a guardare il teatro e la gente che molto lentamente sfollava. Nel foyer, le magliette costavano 45 dollari e ho pensato mo la mecca! Siamo saltati sulla macchina e abbiamo sgommato veloce verso il letto. Due ore e mezzo dopo (alle 2? 2 e mezza?) eravamo in albergo e ci sentivamo esattamente come i 70enni dopo il concerto: praticamente immortali. Puppate luridi vecchi hippie, eh, mica solo voi.

In pratica, come ho scritto nel post su facebook ma lo aggiungo anche qui perché rende l’idea, è stato come quando Holmqvist segnò al Milan al Manuzzi, un po’ strano, realtà? finzione?, ma fico.

(postilla della mia morosa)
Sono a bere con delle amiche e mi arrivano messaggi di Giacomo che non leggo, tanto tra poco vado a casa, penso. Arrivo a casa e trovo un uomo in stato confusionale che gira di stanza in stanza sussurrando brian wilson, brian wilson, pet sound INITSENTAIRATY e dico cosa hai fatto?
Avevamo prenotato poco prima per Los Angeles, ci avevo messo MESI a convincerlo. Non sembrava neanche poi preso tanto bene. Io ero immersa fino alle orecchie in scrapbooking con disegni di strade, percorsi calcolati al minuto su maps, giornate fitte di roba neanche fosse un lavoro. Lui, però, aveva scoperto che c’era Brian Wilson in quei giorni a Los Angeles e il concerto era sold out. Come facciamo. Testa nelle mani. Oddio.
Vado sul sito e vedo che ci sono ancora i biglietti per lo show di San Diego, che vuoi che sia, sono 200 kilometri, ci andiamo. Davvero? Ma certo, checcifrega. Compra!
Intanto io studio i percorsi, cambio tutto il programma della settimana, imparo a memoria tutte le strade del centro storico di San Diego, per sicurezza, casomai arrivassimo in ritardo. Arriviamo in ritardo. Il teatro è bellissimo. Il resto lo sapete già.

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