Questa mattina ho deciso di partire con una stronzata tipo: alcune volte i gruppi assomigliano alle persone. Una persona può avere una distro hc a 20 anni e a 30 lavorare nel mondo della finanza. Oppure può avere una distro hc a 20 anni e avere una distro hc a 30. Oppure uno può procedere a piccoli passi, ma procedere. Così fanno le band. Considerato che quello che ho scritto è una cosa molto generica e comprende tutte le possibilità, è una cosa anche abbastanza stupida, ma mi serviva per parlare del secondo disco dei Metz. I Metz sono come quelle persone che cambiano, ma solo un pochino.
Nell’ottobre 2012 la Sup Pop aveva ancora il sito vecchio, con le news a sinistra e il fondale marrone. Dell’uscita del primo disco dei Metz ho appreso da quel sito. Credo di aver ascoltato qualche anticipazione, poi l’ho aspettato come uno degli album più aspettabili dell’anno. Ero molto soddisfatto anche dopo averlo ascoltato, tanto da scrivere questa recensione di cui non ricordavo nulla prima di dieci minuti fa. Metz mi aveva fatto gridare alla grande cosa! da subito, per quella batteria ruffiana che c’è all’inizio, e anche dopo, perché unisce un suono ovattato a strumenti sempre in cima al burrone. C’ero andato sotto. Poi venne il nevone e la sera in cui suonarono al freakOut a Bologna non mi mossi di casa. Saltava la luce, si appesantiva il tetto, i gatti erano spaventati, era il blizzard: staccare tutti gli elettrodomestici. Per quella sera, i Metz non me li cagai troppo.
Ma gli altri giorni si. Metz giocava un sacco sugli accenti anticipati, tu-tu patù tu-tu patù: tutte le canzoni si basavano su quell’idea, come anche parte di Total Destruction degli Unsane (Trench, Body Bomb). Niente di nuovo Metz, però è grazie a quell’idea che tutte le canzoni corrono veloci, più veloci di quegli Unsane. A proposito di corsa, c’era un uomo che correva sempre sulla spiaggia quando andavo al mare coi miei. Si chiamava Aldo, i Metz me lo ricordano. Hanno la stessa forza nel ripetere i movimenti, alla ricerca di qualcosa il cui segreto sta nella ripetizione. È noise bello, avrebbe detto il mio amico Mario Macerone, ti deve spremere come un limone, poi magari arriva l’epifania che ti porta al cambiamento. Ma tornando ad Aldo, ogni anno cambiava le scarpette: non quanto adesso, ma già l’attenzione per la tecnologia applicata all’abbigliamento sportivo rendeva. Era il periodo delle Nike Air Max mi pare. Aldo le aveva avute. Imponiti di cambiare qualcosa ogni volta diceva, ma sii molto selettivo, scegli una novità che ti aiuta a migliorare la qualità di quello che fai. Con le scarpette nuove lui correva più facile solo scegliendo la tecnologia giusta, alcune volte sbagliava, ma quando c’indovinava andava come un treno, e la schiena non gli faceva male il giorno dopo. Correva da 20 anni, un giorno si uno no. Ripetere i movimenti gli serviva per concentrarsi meglio su quello che faceva, per trovare la chiave di volta, ciò di cui aveva bisogno per migliorarsi. E il suo bisogno, diceva, erano le scarpe. Anche Aldo cambia un poco alla volta, ma costantemente.
Ho ascoltato e riascoltato Metz ed ero molto curioso di sentire II. Lo volevo ugualmente potente, ma più curato dal punto di vista della scrittura, volevo che sviluppasse quel piccolo sotto strato di chitarre del primo album, che mi sembrava la cosa con maggior potenziale. Era un mio pensiero, non doveva per forza andare così, ma mi pareva la cosa di cui i Metz avevano bisogno per migliorarsi e per fare un secondo album bello come il primo.
Metz II riparte dalla stessa formula buona ma non buonissima del tempo anticipato: la ripete, asciugando un po’ i suoni, in Acetate, Nervous System e Eyes Peeled, e senza farne cifra stilistica. I giri sono più dritti e danno l’impressione di essere ancora più veloci. Ci sono aperture mai sentite prima (Wait in Line). L’album è scritto in modo diverso, senza imporre alle canzoni di girare su se stesse ma creando alcune variazioni interne un po’ più visibili. Distorsioni non per forza tutte uniformi, potenza che si mantiene comunque, canzoni meno opprimenti, quel sotto strato ogni tanto viene fuori più chiaramente e diventa la canzone. Tutto quello che chiedevo, ma non fino in fondo. Rimane sempre noise, direbbe Mario, ma un po’ diverso, bello, anche se non l’esito di un’epifania fulminante. Mario, altro grande maestro di vita. Dirty Shirt è un ep uscito in mezzo ai due dischi. Qualcosa di nuovo l’ha buttato là e in effetti qualcosa viene ripreso in II. È un cambiamento, non radicale ma abbastanza evidente. Sicuramente l’avete già ascoltato perché è uscito da tre mesi, se non l’avete fatto non aspettatevi la copia del primo disco ma neanche un album che brilla per inventiva. Come diceva Aldo: migliora la qualità. Metz II ha più dettagli, ma non così tanto sviluppati da caratterizzarsi per quelli. Rimangono sempre i Metz che abbiamo ascoltato all’esordio. Una persona accasciata in copertina l’altra volta, due questa volta. Un po’ più di una conferma, ma non una sorpresa, un piccolo passo, sono curioso di vedere il prossimo. Chissà forse sul lungo periodo i cambiamenti piccoli, se costanti, me li faranno apprezzare di più. Potrebbero essere i loro cambiamenti per migliorarsi gradualmente.
E poi sono curioso di vederli dal vivo, al freakOut il 10 settembre. A settembre di solito non fa la neve.