Bisogna dire, cazzo, che ogni volta che ci si mette a leggere un libro di Chuck Palahniuk è un fottuto pensare “Ma ‘sto qui, che cazzo mi vuol dire?”. La sensazione si era attenuata con Senza veli ed ero un pò deluso – non dalla storia, che è Il viale del tramonto di Billy Wilder riordinato secondo disordini mentali assurdi – ma dalla sensazione. Senza veli mi è piaciuto subito e non ho provato quello sfanculare tutto e tutti per ripetere in modo ossessivo certe fissazioni e per insistere come un simpatico martello su certe idee, non ho provato quello spostamento della realtà su un piano altro, che, lo avverti, non costituisce la regolarità ma è “solo” dove ti vuole portare l’autore, che se ne frega di portarti in un posto bello, anzi, spesso ti porta in un posto di merda. Soffocare è stato il punto più alto toccato da questo traghettamento violento nell’altrove: nella mente di un malato di sesso che arriva a farsi infilare delle palline da ping pong nel culo; Diary ti sbatte di fronte alla tristezza e al dolore fisico, ma anche a una follia che non vorresti vivere fuori da quelle pagine; Invisible Monsters lo ami perchè leggendolo ti sembra di scoprire un sacco di cose e lo vorresti bruciare perchè quando l’hai finito noti che in realtà non hai scoperto niente, però continui a pensare a quella modella sfigurata dall'”incidente” che si trascina e viaggia con quella sua “amica”; Fight Club è Fight Club: solo in quel posto, mentre leggi, vorresti che ti portasse l’autore, ma, pensandoci, sei contento di non esserci davvero.
La cosa intressante è che Palanhiuk tira dentro alla sua follia anche l’editor, che spesso ringrazia, e il traduttore, che fa un lavoro difficilissimo perchè deve far rendere in italiano le pagine di uno che: 1) è folle, 2) ha una fantasia estrema, 3) è nato a Pascoe, Washington.
A volte noti subito che c’è altro rispetto a quello che Palahniuk scrive nero su bianco, a volte questo “altro” lo stomaco lo tollera, altre volte no. Ci sono quelle volte in cui invece Chuck mena un pò il can per l’aia, cioè ti sbatte un pò la penna in faccia, scrive, riscrive quello che ha già scritto nella pagina precedente e ti fa girare le palle, le prime volte che o affronti. Poi capisci che ti devi fidare, che prima o dopo ti darà, nell’economia di un romanzo, almeno una grande soddisfazione: può essere improvvisa, può sembrare impreparata, può sembrare che neanche lui una pagina prima sapeva dove voleva andare a parare, può essere un colpo di scena, può essere una cosa schifosa, ma comunque, di sicuro, una soddisfazione te la dà. Gang Bang ti dà una sensazione davvero sgradevole, come essere sommerso nello sperma degli altri, non è bello, però alla base di tutto c’è una storiellina che ti tiene incollato alle pagine (scusate l’accostamento tra incollato e sperma) e alla fine… colpo di scena! Diary è una storia che sembrava avere il solo scopo di farti pensare “Dannazione, ‘sto romanzo è solo su un caso umano o c’è altro?”, e invece no.
Dannazione è il diario di una ragazzina che è finita all’inferno perchè ha fumato troppa marijuana. Leggendo la motivazione pensi “Ma che cazzo dici?” e ti aspetti che ci sia altro. E in effetti altro c’è, ma arriva dopo che Madison (la ragazzina) ha conosciuto gente, fatto cose, visitato l’oceano di sperma sprecato (non sono fissato, è Palahniuk che è fissato) dove finiscono tutti i risultati finali di tutte le seghe del mondo, dopo aver visto il deserto di forfora, le colline delle unghie tagliate e i monti di cacca di cane fumante, luoghi meravigliosi in cui abitano star, politici, grandissimi stronzi della Storia e artisti come Robert Mapplethorpe, Marilyn Monroe, Ava Gardner, John F. Kennedy e John Lennon, Jimy Hendrix, Hitler, Gengis Kahn, Caino, Nureyev, Morrison, Janis Joplin, Kurt Cobain e Susan Sontag insieme ai giornalisti e alle persone con i capelli rossi. In questo particolare caso, quindi, Palahniuk ti intrattiene alla grande mentre ti fa aspettare e la tira un pò per le lunghe. L’oceano di sperma sprecato è una delle cose più agghiaccianti del Mondo, ma Chuck ti intrattiene anche con duelli con i mostri dell’Inferno, con riflessioni sul mondo del lavoro, dello Star System hollywoodiano e con riflessioni sulla vita e la morte. Una su tutte:
“La morte è un processo lungo. Il corpo è soltanto la prima delle cose che schiattano. Il senso è: poi devono morire i sogni. E poi le aspettative. E la rabbia per aver dedicato una vita intera a imparare cose e amare persone e guadagnare soldi, per poi scoprire che di tutte quelle cagate non ti resta niente. Poi devono morire i ricordi. E l’ego. L’orgoglio e la vergogna e l’ambizione e la speranza, tutte quelle stronzate dell’identità possono metterci secoli a scomparire”.
Poi. Madison cresce durante la storia, anzi si sveglia quasi all’improvviso e scopre che l’Inferno è bello, è divertente, che ci sono persone fiche e simpatiche. Ecco cosa intendo quando dico che Chuck Palahniuk ci riserva sempre una sorpresa. Questa volta ci ha fatto vedere da un altro punto di vista nientepopòdimeno che l’Inferno, dipinto sempre come un luogo nel quale non bisogna finire, un luogo da evitare. Lui invece lo descrive come un posto per certi versi schifoso ma pieno di fantasia, ricco, e al quale ci si affeziona.
Questo non è forse un ottimo modo per farci accettare serenamente la morte? Quanto è cristiano Chuck Palahniuk, è come un prete.
Ciao, ti ho appena scoperto e già mi manchi.
Grazie.