Athens Pop Fest 2018: il report

athens pop fest 2018

Hai controllato che la tua patente non sia scaduta? Prima di partire, io e la mia ragazza abbiamo fatto una cena con i parenti e siamo finiti a parlare di multe e polizia. Ognuno ha raccontato il suo aneddoto tra un bicchiere di bianco e l’altro e la serata è scivolata via che è stato un piacere. Ridevo sotto i baffi di quelli che si scordano di rinnovare la patente. Il giorno dopo controllo la mia e scopro che non è scaduta, ma scadutissima. Smetto di ridere. Quante possibilità c’erano che mi fermassero in autostrada verso l’aeroporto di Bologna? Pochissime, ma la sfiga è sempre in agguato.
Ho avuto culo, perché ho trovato un dottore che visitasse il 6 agosto. Avete mai fatto la visita oculistica per rinnovare la patente? Ah, praticamente una TAC. Durata 1 minuto e 50 secondi (cronometrati), con il medico che non si capiva cosa dicesse e io che rispondevo a caso, l’ho superata. 100 euro all’autoscuola e patente nuova.
Alle due del pomeriggio del 6 agosto, mentre ero sotto i ferri del dottore, arriva la notizia del camion esploso. Mia mamma mi telefona per dirmi che mia zia le ha detto che ci sono 100 morti. Mia zia <3… quella che una volta ha visto una pantera sotto casa. Comunque, incredibile che ci siamo stati solo due morti e non davvero 100. Per noi, nessun problema di spostamenti, perché per l’aeroporto Marconi si esce prima. Dopo poche ore eravamo sull’aereo per Atlanta, poi Athens GA, al Pop Festival. Super.

Abbiamo fatto scalo ad Amsterdam. Dopo i controlli all’ingresso, sono stato selezionato per ulteriori accertamenti. Non prima di prendere due caffè allo Starbucks però. Quando ordini, allo Starbucks ti chiedono il nome, così ti chiamano quando la tua roba è pronta e sanno a chi darla. Un buon metodo, considerate le file.

“Giacomo” dico io al cassiere
“Sorry?”
“Giacomo”
“Saicom”
“No, Giacomo”
“Ok”. E scrive.

Tempo 10 minuti e i caffè sono pronti. Chiamano il mio nome: “Jacqueline!”.

Per gli ulteriori accertamenti, mi presento dall’incaricato, che incomincia a farmi le sue domande confondenti, che con me raggiungono il loro scopo.

“Sei sempre stato vicino al tuo bagaglio?”
“SI”
“Dov’è il tuo bagaglio adesso?”
“Ah, l’ho lasciato là alla mia ragazza”.

Il poliziotto mi ha intimato di andarlo a prendere, che doveva fare l’ispezione, per la quale mi ero già immaginato guanti in lattice e due dita su per il culo, invece per fortuna con i guanti in lattice una seconda incaricata ha solo fatto tamponi su qualsiasi oggetto contenuto nel mio zaino, anche sul pad del computer. Per fortuna che la sera prima non mi ero fatto una riga di coca lì sopra. Preso in custodia in un angolino da un terzo incaricato, sono stato palpato con tenacia e poi spedito sull’aereo con un calcio nel culo.

Anni fa, il professore di Tecnica delle Medie predisse alla mia fidanzata che sarebbe morta in un viaggio all’estremo nord. Per arrivare ad Atlanta siamo passati dalla Groenlandia: lei era terrorizzata, ma abbiamo vinto il ghiaccio anche con la suola liscia (cit.) e tutto è andato bene. Atlanta l’abbiamo vista per poco, e da sotto i piloni dell’uscita dell’aeroporto: il cielo era grigio. Abbiamo chiamato un Uber e siamo arrivati dritti al nostro motel ad Athens, GA, un Days Inn con piscina posizionato meravigliosamente rispetto al centro della città. Erano le 8 di sera, eravamo svegli da 24 ore ma siamo andati al “calcio d’inizio” del festival al The Foundry: i Wieuca, quattro giovanissimi ceffi sfasati duri che però suonano a meraviglia l’indie rock un po’ psycho. Ho comprato il cd. Purtroppo ci siamo persi Kxng Blanco, rapper old school, che comunque ha sbombato, accompagnato da una crew di ragazzi carichi, ci dicono. E chi ce lo dice? Renato, che abbiamo incontrato là (lo sapevamo, non è stato un caso) e che mi ha offerto subito una Tropicalia, una birra IPA all’aroma di limone. La mia ragazza si era già accomodata fuori (91°F = 33°C) a mangiare patatine fritte (molto buone). La serata, che doveva proseguire con “drink veloce prima di andare a dormire”, si è conclusa con qualche brindisi di troppo e The Great Beyond. Parlando, l’ho chiamata “I’m Pushin’ an elephant” e mi sono guadagnato il rimprovero severo di Renato, che è il più grande fan del mondo dei R.E.M. A mia discolpa posso dire che la fissa per quella canzone non mi è ancora passata dal ’99 e mi è venuta da chiamarla con le prime parole del ritornello perché per me ha l’importanza di un’enciclica.
Athens è la città dei R.E.M, dei B’52 e di tanta altra musica. Quella sera abbiamo anche parlato di come risenta dell’influenza di altro, più che dei R.E.M. Io dissentivo, ma alla fine avevo torto.

[Prima notte: sonno profondissimo].

Il giorno dopo siamo andati a fare una passeggiata nel Campus dell’Università, di fronte alla facoltà di Giurisprudenza. Decine di futuri avvocati di belle speranze attraversavano i 92°F del parco in giacca e cravatta, per poi sparire in biblioteca, dentro a una nube di aria condizionata a palla. Noi eravamo seduti su una panchina in calzoni corti e sandali a scanocchiarci le dita dei piedi. Poi siamo andati a mangiare un hamburger da The Grill, un diner vecchio di 50 anni autentico come le sua macchie sul soffitto, che avevano una certa eleganza.

I concerti erano tutti al chiuso. Ad ascelle inesperte potrebbe sembrare inopportuno: un festival estivo al chiuso?! Ma fuori c’erano sempre quei famosi 91-92°F e alle due del pomeriggio sarebbe stato difficile resistere senza evaporare. Come in biblioteca e in ogni posto al chiuso che si rispetti, c’è un’aria condizionata che ti surgela il sudore all’istante. Non fanno eccezione il Little Kings Shuffle Club e al Georgia Theatre, le due location dell’Athens Pop Festival. Che ufficialmente, dopo il kick off della sera prima, è iniziato quel giorno.

Per colpa dell’hamburger buonissimo di The Grill non abbiamo visto Michael Potter al Little Kings. Siamo arrivati un po’ pieni e trafelati, all’ingresso ci ha fatto entrare Marie A. Uhler, la batterista degli Eureka California, e io mi sono un po’ emozionato, sentendomi un’idiota. Abbiamo inaugurato con i Big Baby, tre ragazzi di Richmond, Virginia, basso distorto che spesso e volentieri finisce sopra la chitarra, che altrettanto spesso disegna ritmi tropicali (e il tropicale, a partire dalla birra, è una delle tendenze di questa edizione del festival: vedremo anche i Flamingo Shadows). Poi, A Certain Smile, un po’ senza chitarra per i miei gusti. Dopodiché, hanno suonato gli Air Sea Dolphin che oltre a essere l’ennesimo buon gruppo di Robert Schneider hanno sfoggiato anche il miglior batterista del festival:

Sembra un coltivatore di pesche (quindi già, esteticamente, gli voglio molto bene), è evidentemente uno spostato, peccato non averlo filmato mentre si muoveva tra il pubblico dopo il concerto, con sguardo vispo e attento, e una vena di follia. Che trasferisce sulla batteria quando suona, sempre dritto ma decisamente frenetico.
A quel punto, dopo una pausa di un paio d’ore, un caffè bollente e un bagno refrigerante in piscina, è iniziata la prima sera di festival. È stato un crescendo, poi un calando. Lambda Celsius, ragazza di Nashville col caschetto biondo che ha alzato ai massimi livelli il grado di teatralità e di new wave, trascinandomi nell’indifferenza, e che pareva dire: “Fottiti pop rock”. E invece no, era una inserita, amica di tutti e molto simpatica. Poi è arrivato DopeKnife, con Linqua Franqa. A un certo punto Dope ci ha chiesto di portargli un oggetto. Sapeva che gli sarebbe arrivato di tutto e che avrebbe avuto di che divertirsi. E infatti. Se gli metti delle cose a caso sotto al naso Dopeknife cosa fa? Un freestyle. Bellissimo. Il resto è stato una noia mortale. No scherzo, è stato una bomba. Tra l’altro, ascoltandolo prima del festival, non pensavo fosse così dolce e paciocco, DopeKnife: fumo, coltelli, il coltello della dopa, lo pensavo più gangsta, nell’atteggiamento proprio. Ma meglio così: ha una scrittura old school, il mood delle canzoni è gangsta alla Ice T, sul cd è un duro ma dal vivo ha un modo di fare simpaticissimo e giocoso, alla De La Soul.

Uno dei cuori del fermento musicale di Athens è Mike, l’organizzatore del festival e capo della HHBTM Records. Un tipo simpatico, un po’ sulle nuvole, un po’ hippie come atteggiamento, easy, ma molto in gamba. Ha tutto sotto controllo. Ed è il primo Mike che abbiamo incontrato durante la vacanza, proprio quella sera. È amico di Renato, che tra l’altro ha portato la Flying Kids a fare da sponsor al festival.

Il frullo della pesca della Georgia mi è partito quando ho visto la targa dello Stato: una pesca, non color Nettarina, ma con diverse sfumature, dall’arancione, al giallo, al bianco, e un effetto velluto vero sulla buccia. È una storia triste. Le ho cercate con tanto desiderio, anche all’Athens Farmers Market del mercoledì, a due passi dal Little Kings, ma niente. Quando finalmente ne ho trovate due, per caso, dentro a una ciotolina di vetro, tristi, abbandonate, rosse un po’ scure, del tutto simili alle romagnole (che io adoro, ma avrei voluto esplorare i nuovi mondi delle pesche georgiane), non ho neanche avuto l’istinto di mangiarle. Le ho ignorate. Erano lì da chissà quanto, senza più il sole dentro, conservate alle temperature glaciali di un interno americano super ariacondizionato, e hanno ammazzato il desiderio. Un sogno ucciso dall’aria condizionata. A continuare a cercare, a ordinarne una al ristorante dopo mangiato, avrei potuto realizzarlo. Ma non l’ho fatto. Perché magari erano state conservate in frigo. Adesso un po’ mi sono pentito, perché avrei potuto assaggiarle lo stesso, fare finta di niente, essere un po’ hippie.

E a proposito di hippie, subito dopo Dope hanno suonato i Marshmallow Coast in perfetto stile folk psico noise alla Elephant 6, un fiume che si muove a rilento, e rischia di far stagnare l’acqua, e allo stesso tempo una furia pop. Come Mount Eerie ai primi tempi dei Microphones. Come la palpebra che ti cala e va giù, giù, e pum! quando arriva in fondo ti risvegli di soprassalto.

Una sera eravamo al bar del roof top del teatro in cerca di un tavolino, ci sembrava che i Rat Fancy ne stessero abbandonando uno e ce ne siamo impossessati prima che se ne fossero effettivamente andati. “Ve ne state andando vero?” gli abbiamo chiesto. Hanno raccolto tutte le loro cose in fretta e se ne sono andati. Non è stato un episodio fluido. Comunque, i Rat Fancy hanno suonato dopo i Marshmallow. Sono in due, Diana e Gregory, di Los Angeles, ma sul palco erano con gli Eureka California. Hanno fatto un disco che si chiama Suck A Lemon che è proprio come succhiare un limone. Gregory è un chitarrista molto fantasioso e con un gran gusto.

A quel punto è arrivato il momento della cena: da Filipino. La cassiera aveva un tono così gentile da farti arrabbiare, ma i noodles erano buonissimi. È una cosa che hanno: dei sorrisi incredibili (nel senso di non credibili) quando devi pagare. Non sono tutti così, non tutti spingono troppo e rendono evidente che sono gentilissimi perché vogliono la mancia, ma molti lo fanno. Comunque, in media un cameriere prende poco più di due dollari all’ora, quindi la mancia gliela dai volentieri.
Un’altra cosa che hanno al Sud è un accento bellissimo. Un giorno ho chiesto una birra al bar, con qualche esitazione il barista mi ha detto che l’aveva finita e mi ha proposto un’altra cosa, vendendomela con una gran descrizione di cui io ho capito solo “red”. Una birra rossa ho pensato: ottimo! Aveva il sapore di ciliegia e allo stesso tempo sembrava lambrusco: mi aveva venduto una birra-lambrusco alla ciliegia e io avevo capito che mi avrebbe dato una birra ambrata. Bellissimo l’accento del sud!
Però, quel “dialogo” col barista è servito a qualcosa. Appena appoggiato il bicchiere di lambrusco per me sul bancone e afferrati i soldi dalle mie mani, è passato al cliente successivo.

“Vuoi una birra?” ha chiesto a un signore che si era appena seduto di fianco a me.
“No” ha risposto quel signore, guardandomi con un sorriso.
“No?” gli ha richiesto il barista.
“No, no, bevo sempre birra, concedimi una pausa” ha aggiunto il signore, urlando fortissimo. Ecco, quel signore è un amico di Renato, si sono conosciuti l’anno scorso per via della passione comune per gli Husker Du. Si chiama Mike, è il secondo Mike della vacanza e se il barista non mi avesse abbindolato col lambrusco all’americana non l’avrei incontrato.

Joe Jack Talcum è una specie di eroe. Ex cantante dei The Dead Milkmen e membro di altri progetti, è un ragazzo tranquillo, che si aggirava per il festival come se fosse lì per lo stesso motivo per cui c’ero io. A chi lo salutava “Hi, Joe” lui diceva “Hey”. Ha suonato da solo con la chitarra, molto piacevole e accolto calorosamente dal pubblico. Dopodiché, il calore del pubblico è leggermente scemato con gli Essex Green (troppo country e Belle & Sebastian anche per i miei gusti) per ritornare a fare a botte con l’aria condizionata con gli Elf Power, noto gruppo locale. A me non sono mai piaciuti, per due motivi: 1) preferivo i Mercury Rev (ci assomigliano, soprattutto a quelli di Deserter’s Song, ma non sono così potenti); 2) la voce del cantante, un falsetto buono buono, che non sopporto.

[Poi, tutti a letto].

Il giorno seguente (e siamo a giovedì) è stato uno dei migliori. Purtroppo ci siamo persi gli Hunger Anthem from Athens causa pranzo disorganizzato, prima al Big City Bread poi dal Filipino. Ma cos’è questo Filipino? È uno dei protagonisti assoluti della vacanza, il furgoncino di street food filippino ufficiale del festival, che faceva dei noodle molto buoni e delle nuvole di gamberi multicolore. Per piacere di cronaca: come seconda colazione abbiamo preso pancake e frutta al The Grit, un posto molto bello per mangiare a tutte le ore. Altra nota di piacere, nei giorni del festival abbiamo sempre bevuto Topo Chico, l’acqua con gas distribuita gratis al Little Kings, senza la quale avremmo speso almeno 100 dollari in più in acqua.

Suggested Friends (ne parlo più sotto)

Gli Shut Ups non sono da includere tra i gruppi che hanno reso quel pomeriggio un pomeriggio migliore, ma Positive No, Joy Cleaner e Zooey si. I Positive No fanno dell’indie rock scritto e suonato da dio ed è bastato questo per farmi venire gli occhi lucidi. Tra l’altro, sono amici dei Van Pelt. Su Weird Hugs la cantante ha abbracciato tutti, noi compresi, e nei giorni seguenti c’ha sempre salutato come se fossimo suoi amici: molto hippie. I Joy Cleaner hanno iniziato soporiferi e si sono svegliati all’improvviso per l’ultimo pezzo (Disposable Outcome). È stato talmente figo che ho comprato il cd al banchetto. Il banchetto cumulativo di tutti i gruppi che suonavano ogni giorno era sempre uno dei posti più affollati. Si pagava con la carta di credito! Ultimi del pomeriggio sono stati gli Zooey di Tallahassee, che fanno show gaze in cui non si sente la voce, hanno lo spleen, sono giovanissimi, quindi benissimo, ho comprato la cassetta.

Con gli Zooey si è messo a piovere e i due concerti previsti sul roof top a partire dalle 5 sono stati spostati in un locale che esiste ma dal nome premonitore, davanti al teatro: il Nowhere Bar. Un alone di mistero da quel momento ha avvolto i due gruppi: dove sono? I Love Language – che ricordavano un po’ troppo David Gray – si sono materializzati a fine serata sul tetto quando non pioveva più, ma i Moon Racer non so che fine abbiano fatto.
L’alone di mistero te lo danno gli Antlered Aunt Lord, che con il loro sound epico, un po’ emocore e Neutral Milk Hotel si confermano un gruppo della madonna. Peccato che un sandwich e un cocktail ci abbiano inchiodato qualche minuto di troppo al tavolino del Clarke’s e siamo arrivati in ritardo al teatro. In pratica, uno dei gruppi che aspettavo di più è rimasto incastrato in un panino. Abbiamo cannato anche i Buxton. Ma non gli Ampline (con MIKE degli R. Ring), che hanno fatto un concerto punk rock tirato, senza fronzoli e di poche parole.

Le parole gliele ha messe subito dopo Robert Pollard con Guided By Voices. Hanno suonato due ore, lui ha detto 8 milioni di cose, ha fatto tutti i suoi gorgheggi e acuti, si è trattenuto (si fa per dire) con l’alcol ma non con le spaccate aeree. Al pubblico ha offerto birre, estratte come per magia dal suo frigo da pic-nic, riposto con grande attenzione dal roadie ai piedi della batteria durante il sound check. Peccato che fossero in bottiglie di vetro e che i buttafuori abbiano dovuto ritirarle maledicendolo. Ma non fa niente Robert, il club ormai era aperto ed era come se fosse tuo quando eri sul palco. Un concerto fiume di 36 canzoni. E poteva andare anche peggio, visto che per la data precedente a Birmingham, Alabama, ne ha fatte 52. Scaletta da super brividi anche se a memoria non saprei ripeterla neanche dopo una doppia dose di Be Total Mind Plus: di sicuro hanno fatto Sport Comfort, Steppenwolf, I’m a Scientist, I’m a Tree, Ironmen, Soldier, Hudson Rake, Space Gun eccetera. C’è la foto sul lo @instagbv comunque. Mi è mancata My Valuable Hunting Knife ma non è grave. Completo camicia pantalone e Vans, alla David Lynch, Pollard è stato padrone del Georgia Theatre per tutto il tempo in cui è stato sul palco, poi è scomparso. Cosa che non si può dire del bassista e del chitarrista, rimasti in giro a ubriacarsi senza vergogna per due giorni. Posso dire di aver pisciato con loro sia quella sera che quella successiva. Poi basta, visto che il sabato hanno suonato a Jacksonville, Florida. Comunque, ho pisciato due volte con i GBV.

La serata si è conclusa con David Barbe (ex bassista degli Sugar di Bob Mould) sul tetto. A un certo punto, una ragazza, guardando il palco da lontano, si è avvicinata a noi e ha detto, proprio rivolta a noi: “Ma non doveva suonare Dave Barbe?”, “È quello”, “Aaaa, non l’avevo riconosciuto.. è tanto un bravo ragazzo” e se n’è andata. Barbe suona ed è direttore del dipartimento musicale della UGA. Insomma, è proprio un bravo ragazzo. Forse una volta ha conosciuto e amato quella ragazza, lei non l’ha voluto e ora prova simpatia per lui. Non lo saprò mai, comunque il concerto era tutto chitarre psichedeliche lente, no tropical ma rilassanti, e dopo un po’ siamo tornati al nostro fantastico Days Inn perché river Pollard ci aveva distrutto. In senso positivo eh.

[They call me Sleep Over Jack].

Venerdì mattina siamo andati a fare il tour bus delle case storiche. So che può sembrare una cosa da turisti anziani, lo è, ma è stato molto bello. Abbiamo scoperto le caratteristiche dell’architettura residenziale di Athens e quali personalità più o meno illustri hanno vissuto in città. Ho scoperto che mi piace guardare come sono fatti i portici delle case e quante sedie a dondolo ci sono sotto. Ci sono alcune sedie enormi. Sopra, non c’è seduto quasi mai nessuno.

Siamo arrivati al Little Kings un po’ in ritardo (pranzo al The Grit, ce la siamo presa comoda). Non ci siamo comunque risparmiati e abbiamo cannato completamente solo Ew: c’è chi dice “meglio”, c’è chi dice “peccato”. Gli Ultra Beauty di Washington hanno la scorrevolezza di un camion incastrato tra due muri, ma la loro velocità inesplosa ha preparato l’atmosfera per entrambi i concerti seguenti: prima le Blushing, più languide e dream pop con convinzione, poi le Rose Ette, che hanno dato la svolta brìo alla giornata. Le Rose Ette sono di Houston, ma “nessun problema” perché sono veramente piacevoli, leggère come il mio cervello in ferie, spolpando le ultime ore del pomeriggio.
Momento Slits con i Gauche. Cena sul roof top con hamburgerino e patatine e arriviamo al piano terra del Georgia Theatre non in tempo per i Pohgoh (mi sa che è stato un peccato) e giusto in tempo per Wesdaruler, rapper old school che accompagnerà anche Linqua Franqa l’indomani, e i Flasher, che mescolano bene shoegaze, punk rock, garage e DEVO.

Poi il teatro si trasforma nella casa degli hippie, con gli Oh-Ok, il gruppo di Lynda Stipe, sorella. Gli Oh-OK fanno una specie di post punk con una spiccata propensione al pop, Lynda è felice e il concerto è una festa: sul palco sono in mille, sono di Athens, sono stati attivi solo un paio d’anni negli anni 80 e la città è venuta a salutarli in massa. In giro ci sono anche mamma Stipe e Mike Mills… e MIKE a quel punto è stato proclamato ufficialmente Nome Della Settimana. Poi ha suonato solo Dean Wareham (i Galaxie 500) con la moglie Britta. È il Family Day al Georgia Theatre! Questo party tutto famigliare e cittadino aveva però anche un risvolto politico: il 6 novembre ci saranno le elezioni di metà mandato per la Camera dei rappresentanti, il Senato e i governor (i leader di ogni stato) e Lynda Stipe aveva la maglietta di Stacey Abrams, candidata democratica a governare la Georgia, prima donna nera a correre per questo ruolo per un partito di maggioranza. Tutti, in quella sala, erano suoi sostenitori, era chiaro.

Sempre proiettati in avanti gli His Name Is Alive, rapiti da una svolta hard rock anni ’80 molto raffinata. Non li conoscevo prima di Athens ma Giovanni mi ha detto che una volta erano uno dei gruppi più interessanti della 4AD. Sicuramente qualcosa deve essere andato storto. Poi, per ultime, le Ex Hex di Mary Timony. Abbastanza inutili, perché non aggiungono niente al garage punk già sentito centomila volte. Per carità, gran mestiere, ma chiuso lì.

[Vado a letto, neanche troppo stanco, pensavo peggio]

Sabato è stata una grande giornata, sin dalla mattina. È stato il giorno in cui siamo capitati dentro a Epiphany, l’unico negozio di Athens in cui non trasmettono musica bella ma video delle proprietarie che parlano di come Cristo abbia cambiato la loro vita: per questo, tutto il negozio è ispirato a e da Lui. Un lato oscuro di Athens che non avevamo notato fino a quel momento.
Dopo una passeggiata nel parco del fiume Ocone, ci siamo trovati di fronte al Railroad Trestle, il traliccio della ferrovia che fino al 1973 collegava il centro della città con l’esterno, oltre al fiume. Nel 2000 stava per essere demolito ma una raccolta fondi dei cittadini l’ha salvato. Perché dovrebbe anche solo minimamente interessarvi tutto ciò? Perché è il traliccio del retro della copertina di Murmur dei R.E.M. A pochi passi da lì, poi, c’è Mama’s Boy. Perché è importante Mama’s Boy? Perché è un ristorante di soul food incredibile: ho mangiato una spalla di maiale gigante affogata nella salsa olandese con un grosso biscuit e 2 uova. Se vi capita di andare ad Athens, dovete andarci e mangiarvela.
Solo a quel punto, allora, potevo iniziare la giornata di muzic e avventurarmi verso due dei concerti che aspettavo di più: Eureka California e Linqua Franqa.

Quel ponte di legno

Sulla spalla del maiale ci siamo persi Jim Shorts, stile Bill To Spill, e Lydia Brambila, cantautrice dream pop che evoca atmosfere di acqua, alberi e fauni. Siamo arrivati per Hothead, seconda cantautrice della giornata, più hippie rispetto a Lydia B, con melodie più decise e una chitarra più suonata e meno arpeggiata. Era accompagnata da un ballerino che ogni tanto faceva un coro, Mauro Repetto degli 883, però ricciolino. I Suggested Friends hanno suonato subito dopo e sono stati la scoperta migliore del festival. Unici inglesi presenti, rielaborano fortissimo modelli diversi degli anni ’80 e ’90, dalle Sleater Kinney alle Marine Girls e il risultato sono melodie da leccarsi le orecchie e chitarre con suoni degni del miglior sound checker del mondo. Disco sold out, sennò lo compravo. Da ascoltare anche l’altro gruppo della bassista, i Mammoth Penguins.
I Flamingo Shadow fanno un passo indietro: i loro suoni sono così dolci, ondulati e cantilenanti che mi invitano a ordinare una Tropicalia. Non il mio gruppo preferito ma una buona idea prima di iniziare la serata. Non prima però di un tuffo in piscina e un rotolo al The Gritt, eletto a quel punto Miglior Posto Fighetto In Cui Mangiare della vacanza, un altro campionato rispetto al Filipino.

Il concerto di Linqua Franqa è stato voce, rap, personalità, impegno politico-sociale, ballo, poesia. In pratica, ha conquistato tutto il teatro. Lei è una local, nera, PhD in linguistica e Commissario della Contea in Georgia, carica per la quale ha prestato giuramento sulla biografia di Malcom X. “Grande amore ma anche grande tristezza, perché so che non la vedrò mai più” (cit. la mia morosa). È stata la regina delle prese bene sul palco, spigliata, divertente, aggressiva nella misura giusta.

lingua franca

Wesdaruler e Linqua Franqa

Lo stesso non si può dire di Jake Ward degli Eureka California che è il re dei presi male, categoria che mi piace tantissimo e a cui ritengo di appartenere. La presa male, però, può giocare qualche scherzo. Hanno fanno un bel SET, ma è mancato qualcosa. L’atmosfera, nei giorni precedenti, non è mai stata come per questi due concerti. Mentre per gli Oh-Ok sembrava di essere ospiti di una grande famiglia, per Linqua e gli Eureka nell’aria c’era una carica esplosiva. Non era la famiglia a creare l’atmosfera, era la voglia di sentirli suonare. Ed era anche la serata conclusiva. I bar sfornavano birre a tutto spiano e qualcuno camminava storto. Purtroppo se n’erano andati i GBV, altrimenti avremmo potuto pisciare insieme per la terza volta.
Dicevo, la presa male gioca brutti scherzi. Gli Eureka California hanno le canzoni, i suoni e la miccia che fa partire la scaglia. Quella sera però gli è mancata, a volte, un po’ di decisione. Possibili motivi? L’emozione di suonare nel teatro della propria città, far parte dell’organizzazione del festival e quindi di essere coinvolti direttamente in tutto, essere arrivati all’ultima sera, un po’ stanchi forse: un insieme di cose che probabilmente non gli hanno permesso di essere al top. Io comunque, per sicurezza, ho comprato tutti i loro cd e una maglietta al banchetto, semplicemente strisciando la carta di credito. La batterista Marie Uhler vince il premio Ammazza Che Schiena, nell’edizione precedente (ATP novembre 2016) conquistato da quella dei Low.

Man Or Astro-man? e The Mummies han chiuso le porte del festival. Sono molto simili: da anni fanno la stessa roba per un pubblico granitico, abbastanza orgoglioso, legato alla tradizione e ai suoni di una volta, quelli ultra osannati del garage surf. Fanno riferimento a immaginari vicini tra loro: i film horror di serie b per The Mummies, la fantascienza per i MoA. Dal vivo, The Mummies fanno più caciara, i MoA in fondo sono più seri, anche nelle gag, anche se sono più giovani. Entrambi i concerti sono stati un po’ noiosi.

Era l’ultima sera. Il giorno seguente, dopo una camminata tra le case storiche, tra cui quella di Peter Buck, abbiamo pranzato al Donderos, uno dei ristoranti più hippie della città, ottimo. Poi abbiamo salutato Renato e siamo partiti per Atlanta. Due giorni dopo abbiamo preso l’aereo per tornare in Italia. Era il 14 agosto e, mentre eravamo in aria, è crollato il ponte Morandi a Genova.

Cosa ho imparato

“Ero certo: da qualche parte esisteva. Era inconcepibile che in un paese dove prosperava un ideale così profondamente radicato e una fantasia così sfrenata per le piccole città, non ci fosse, in un punto imprecisato, la città ideale – luogo di lavoro e di pace, senza mastodontici centri commerciali e oceanici parcheggi, senza industrie e chiese drive-in, senza Kwik-Krap e Jiffi-Shit (mini-market di merda, ndr) e senza l’obbrobrio del consumismo sfrenato”.

Bill Bryson, America perduta

Quando io e la mia ragazza ci trasferiremo ad Athens, verrà sicuramente fuori un jiffi-shit subito, ma per ora non l’abbiamo visto. È strano anche che non ci sia neanche un negozio di souvenir e oggetti assurdi dei R.E.M per adescare i fan. Di solito, gli americani sono bravissimi a museizzare tutto con cartelli, transenne, visite guidate, gadget. In questo caso non è così. Per dire, i “luoghi dei R.E.M” in giro non sono neanche tanto segnalati. Dev’essere il segno del tempo che passa, o una dimostrazione di rispetto. Oppure è perché i R.E.M si fanno tantissimo i fatti loro. Per dire ancora: venerdì Mike Mills è andato al bar e la barista abbastanza giovane gli ha chiesto un documento. All’inizio mi sono stupito poi ho pensato che sia normale che le nuove generazioni non lo conoscano. O forse gli ha chiesto un documento proprio per vedere se fosse lui. Perché infatti avrebbe dovuto chiederglielo, visto che Mills ha i capelli bianchi? Ma se gliel’avesse chiesto per avere la certezza, poi avrebbe dovuto compiere un’azione da fan, tipo chiedergli un autografo o qualcosa di simile. E invece no. È un caso che rimarrà senza soluzione. Comunque, in un modo o nell’altro, Mills non era troppo interessato né al farsi né al non farsi riconoscere e forse è stato proprio questo atteggiamento, e la fuga di Stipe a New York, a fare in modo che in città non sorgessero jiffi-shit dedicati.
Allo stesso tempo un mondo R.E.M c’è in città, tra vecchi fan e collezionisti di dischi e persone che incontri per strada e iniziano a parlarne se gli dai corda. La serata Oh-Ok è stata una festa, piena di gente che si è ritrovata lì. La mia sensazione è stata quella di partecipare a qualcosa che verrà ricordato, non i Queen a Wembley, ma una cosa più umana, un saluto da lontano anche ai R.EM. Non c’è mitizzazione, e nemmeno commercializzazione, ma il ricordo è vivo. Nessuno dei R.E.M è morto, ok, ma non voglio tirargliela e per ora le cose mi sembra stiano così.

Di sicuro, dal punto di vista musicale, la città sente più l’influenza di altro, Per esempio, del giro Elephant 6, nato a Denver ma poi trasferitosi ad Athens. Ci sono talmente tante cose lì dentro, talmente tanti stili, che diventa un pozzo di ispirazione. Robert Schneider, che con l’Elephant 6 ha fondato the Apples In Stereo, prodotto i Neutral Milk Hotel qualche anno fa e fatto molto altro, continua a fare cose. Ha pure suonato al festival con gli Air Sea Dolphin e il pubblico era contento. Da Wuxtry Records mi ha fatto lo scontrino John Fernandez degli Olivia Tremor Control. Insomma, Athens è una specie di mondo in cui prendono vita all’improvviso tutti i miei amici, che sono sempre stati lontani fisicamente. Lì, sono vicini.
La musica, insieme all’Università, è stata la cosa che ha salvato la città e non l’ha fatta diventare un’Epiphany Town o un’ennesima Castle Rock, dove fanatismo religioso e carenza di lavoro deprimono le persone. È una città hippie, piena di freak vecchi e giovani innamorati del mondo, per questo un po’ ferma nel tempo. E allo stesso tempo è indie rock, con un fermento vero e band che suonano le chitarre, oggi, come se le avessero scoperte ieri. Molti dei gruppi del festival non sono local ma l’Athens Pop ne richiama tanti ogni anno in città, e la città diventa un catalizzatore.
Poi, quando entri in un qualsiasi negozio (a parte Epiphany) ti capita di sentire… i Lemonheads. E quindi compri tutto. Per strada, ti giri e vedi Lingua Franqa che discute di politica con uno, oppure vai a mangiare e di fianco hai i Jim Shorts al completo e il cantante degli Essex Green con i suoi quattro figli e la moglie. Quando eravamo lì, ci sembrava quasi che il ghiaccio che abbiamo nel cuore piano piano si andasse a squagliare (cit.). Non posso fare finta di non aver idealizzato almeno un po’ ma alla fine, in un’estate, vivere un momento da romanzo ci può stare.

Andare lontano per essere a casa. Athens Pop Fest 2017: 9-12 agosto, Athens GA

Kelley Deal

di Renato Angelo Taddei

Molti quando spiego che quest’estate sono stato negli USA in vacanza mi guardano con un misto di invidia e curiosità, fino a quando spiego loro che ho visitato solo Athens, una cittadina universitaria nel nord della Georgia, un meraviglioso scorcio di America reale nel bel mezzo del nulla. Non mi sembra il caso di stare a spiegare perché un appassionato di alt rock americano aneli di visitare Athens, se non lo intuite potete smettere di leggere questo articolo, presumo non vi interesserà.

Quando ho comprato i biglietti e prenotato l’hotel per la mia settimana di vacanze georgiana non sapevo che negli stessi giorni si sarebbe tenuto anche L’Athens Pop fest, manifestazione annuale che concentra in una manciata di giorni il meglio della scena indie locale e federale, tra giovani speranze e vecchie glorie. Quando ho scoperto la concomitanza tra la mia vacanza e il festival ovviamente sono impazzito di gioia, mi aspettavo un tripudio di emozioni, è stato ancora meglio.

Sono arrivato ad Atlanta il 9 agosto alle 5.30 di pomeriggio, a Festival purtroppo iniziato, e il mio Uber ha impiegato un’ora e mezza per portarmi ad Athens, quindi la parte pomeridiana del festival che si tiene al Little Kings l’ho persa bellamente, con mio enorme rammarico. Purtroppo avrò modo di scoprire di essermi perso il live del mio nuovo gruppo preferito.

Tra la doccia e la cena riesco a entrare al 40Watt Club, una delle tappe fondamentali del mio pellegrinaggio, meravigliosamente ammuffito e illuminato da lucine appese al soffitto, solo alle 21.30, in tempo per vedermi i Kleenex Girl Wonder, progetto solista di un freak del posto, venature pop su un impianto pop bislacco che ricorda Daniel Jhonston, e i Feather Trade, un orrendo gruppo new wave con i sinthoni, aberrante. Durante i concerti mi soffermo un po’ sul pubblico, piacevolmente colpito di vedere un parterre eterogeneo composto da persone di tutte le età, si va da vecchi appassionati a ragazzini giovanissimi. Vedo girare un gruppetto davvero giovane, scoprirò solo il giorno dopo che sono il futuro dell’indie rock americano. Il sonno comincia a farsi spazio nella mia felicità ed entusiasmo, ma mi costringo a suon di whisky a rimanere allo show, il mio stoicismo mi ha ampiamente ripagato quando sono saliti sul palco i The Veldt, gruppo newyorkese fondato nel 1989 ma che non avevo mai sentito nominare, shoegaze mixato al soul e cantato con l’anima e la voce nera del cuore, clamorosi, ma lo spettacolo è appena iniziato. Chiudono la serata gli Elf Power, gruppetto che ho sempre mal sopportato, sono carini, a casa loro fanno anche tenerezza, ma alle 01.45, dopo 30 minuti di set ho deciso di desistere visto che ero sveglio da 25 ore.

Il secondo giorno di festival inizia al Little Kings alle 14.00, ma io raggiungerò il locale solo alle 16.00. Il Kings è sulla Hancock Ave, quasi di fronte al National, uno dei ristoranti più carini di Athens (provate l’insalata di calamari) e a pochi passi dalla Creature Comfort, la miglior fabbrica di birra di Athens. Pieno di mobili usati, vecchi suppellettili e di barman sempre con il sorriso sulle labbra, il Kings colpisce per le lanterne cinesi appese al soffitto che rendono il tutto ancor più colorato e gaio. Il palco è posizionato appena alla sinistra dell’entrata accanto a grandi vetrate che consentono alla luce di penetrare e rendere speciali questi set pomeridiani. Iniziano le Heavenly Creatures piacevolissima indie pop band, composta da due ragazze e un ragazzo al basso. Un giorno cercherò di capire perché il 70% della musica alternative americana di vecchia scuola è appannaggio delle ragazze, evviva comunque. Nonostante il gruppo sia dell’Ohio si capisce che ad Athens si trova benissimo, consiglio di scaricare questo per averne la spiegazione. L’ambiente è perfetto per esaltare il lato catchy del loro pop, promosse a pieni voti, interessantissime. Seguono le Other Space, che proseguono il discorso musicale delle Heavenly Creatures raffinandone la scrittura e portandololo a un livello superiore e totalizzante, capolavori di alt-country al femminile snocciolati uno dietro l’altro, alcuni passaggi mi ricordano i Nirvana più pop e mi stendono. Alla fine del set sono svuotato, questi due gruppi mi hanno fatto ricordare perché amo tanto questo genere da farmi 8.000 km, ho quasi le lacrime agli occhi. Mi sento a casa.

Dopo una cena coi fiocchi – le mie vacanze hanno sempre anche un lato gourmet, sono molto goloso – mi trasferisco al Georgia Theater un’istituzione per la musica in Georgia. Il teatro è bellissimo e con un’acustica fantastica, volumi ottimi e ascolto perfetto da ogni punto. Arrivo in tempo per gli Antlered Aunt Lord, gruppo locale con un solo disco stampato ma con 10 anni di militanza ad Athens e dal numeroso seguito, fanno parte della schiera di gruppi che sono parte della comunità e che capisci subito quanto siano legati al territorio e quanto la città sia legata a loro, propongono un indie sbilenco di derivazione Modest Mouse e con un marcato accento wave, notevoli. Segue uno dei set più attesi, ancora ragazze, è il turno delle Waxahatchee, gruppo che su disco non mi entusiasma, visto che viene spinta più la componente pop classica, ma che dal vivo dimostra personalità e carattere, molto bello. Verso la mezzanotte la vera festa, metà della gente presente è qui per il primo concerto dopo moltissimi anni degli Apples in Stereo, che partono un po’ impacciati visto la loro lunga inattività, ma con il passare dei minuti e dei pezzi (che spaziano lungo tutta la loro carriera) il feeling tra di loro e con il pubblico cresce fino ad arrivare ad un vortice di emozioni difficilmente immaginabile, sul palco salgono amici e parenti: Il figlio di Robert Schneider, Max, i Big Fresh e il gruppo di ragazzetti che avevo visto la sera prima aggirarsi al 40Watt club (che scopro essere una band di sedicenni dal nome The Foresters e che hanno inciso il disco del 2017, William Curren Hart, si quello, e altri strumentisti che riempiono il palco in un crescendo di felicità e voglia di stare assieme. Lo so sembro Assante che racconta Woodstock, ma la sensazione era veramente quella. Sono le 2.00 e me ne vado a dormire contentissimo, la terza sarà la mia serata, ma la seconda è stata fantastica.

Il giorno tre posso finalmente dedicarlo unicamente al festival, quindi mi sposto al Little Kings abbastanza presto giusto per vedere i Growl, gruppo garage texano dalla forte grinta ma dal cavallo dei pantaloni discutibilmente troppo alto, gli Schande, gruppo inglese in trasferta dalle melodie killer puro alt rock ’90, chitarre taglienti e voce suadente della cantante, e i noiosissimi Tres Oui, direi che sta roba la possiamo relegare al 2006 e lasciarla negli annali alla voce “ci bastavano gli smiths”. Il set pomeridiano viene chiuso dai formidabili Big Fresh, con il loro pop jazz anni ’80. Un genere che è lontanissimo dai miei gusti ma che i dieci folli sul palco trasformano in una festa bellissima e colorata, cori, fiati, gente che balla e alle 18.00 sono già sbronzo. Mi mangio qualcosa al “World Famous” così da potermi ascoltare i due concerti solisti di Matt Harnish con il suo cantautorato country e soprattutto della bellissima Claire Cronin che con la sua fantastica voce mi risveglia dal torpore della troppa birra bevuta.

La serata al Georgia Theatre è subito di grande impatto con i Big Quiet, trio debitore dei R.E.M. degli esordi così come dei Pylon. Subito dopo sul palco sale Kelley Deal con il suo nuovo gruppo R.Ring che riporta subito alla mente il gruppo principale di Kelley, le canzoni sono eccezionali e su disco la parte elettrica prende il sopravvento su quella acustica che nel live la fa da padrone, ed è subito Breeders. Laetitia Sadier porta tutti a scuola con un set delicatissimo ed emotivo. La ex cantante degli Stereolab incanta tutti e il successivo set dei beniamini di casa, gli Eureka California senza infamia e senza lode, ci riporta con i piedi per terra, piedi che cominceranno a saltellare e a spingere il corpo verso gli altri con il set dei Superchunk che è il mio personale hit perché il più atteso, sono uno dei pochi gruppi “bigger than life” che mi mancavano, lacuna colmata, straordinari per intensità e spirito. Finisco la serata con troppi “fireball” in corpo e attacco pezze a tutti e faccio amicizia con Robert Schnaider, Mike Turner – l’organizzatore del festival – e Wiliam Curren Hart, scambio anche qualche parola con Kelley Deal e saluto emozionato Mike Mills, con il cuore che batte a mille me ne torno in hotel.

Sabato 11 agosto quarto giorno di festival arrivato al Little Kings mi sento ormai uno del posto, batto i cinque a musicisti, fotografi e altri normali partecipanti come se ci conoscessimo da sempre, the family. I set iniziano con Saline e il loro shoegaze aspro, dopo di loro delle ragazze indiavolate che fanno alzare la polvere dai tavoli con i loro pop/punk, uno spettacolo le Dump Him, seguono le Seafang e il loro rock pop ’80 e gli Scooterbabe, emo con una forte componente post rock che non si fa dispiacere.

Dopo cena arrivo al Georgia Theatre in tempo per i Lingua Franca, fantastico duo hip hop dove la fisicità va di pari passo con la fluidità testuale, una delle tante bellissime sorprese del festival, da approfondire assolutamente.

Altrettanto incisivo è il live delle Noon:30 con il loro soul – hip hop una vena scura incombente e minacciosa batteria, chitarra, loop e una voce profonda e che arriva diretta all’anima. La quarta giornata, come da programma è quella più lontana, teoricamente, dai miei gusti musicali, ma la carica dei gruppi sul palco e del pubblico in sala trasforma le emozioni di tutti in qualcosa di unico, qui potete vedere l’intero set del gruppo “provare per credere”.

Segue uno dei set che aspettavo di più. I Pylon Reenactment Society sono una cover band dei Pylon dove canta la cantante dei Pylon, Vanessa Briscoe Hay, che una decina di anni fa decise di rimettersi a cantare i pezzi del suo vecchio gruppo assieme a un alla star team di musicisti di Athens. Il risultato, seppur posticcio, è assolutamente gradevole, stando poi la portata storica dei Pylon.

Prima del main stage suonano i Tunabunny, gruppo gemello dei Antlered Aunt Lord (nel senso che ci sono proprio gli stessi musicisti che si scambiano gli strumenti) che colpiscono al cuore con il loro psych pop, gradevoli e coinvolgenti. Chiudono la serata e il festival le ESG, storica band newyorkese anticipatrice dell’hip hop, ritmi duri e circolari, basso e batteria no wave. A 40 anni dagli esordi perdono inevitabilmente la propria matrice sperimentale portando però a galla la natura danzereccia e più divertente. Nonostante l’età le signore tengono benissimo il palco e il percussionista riesce a coinvolgere a modo il pubblico che apprezza e si muove divertito.

Sono quasi le due di notte quando il Georgia Theatre chiude le porte, mi dirigo verso l’hotel con il groppo in gola e un solo obbiettivo in testa, tornarci l’anno prossimo.

Non consiglierei a nessuno di visitare Athens, non ha molto senso se non siete dei malati mentali cresciuti negli anni ’90 con il mito dei gruppi nati durante i corsi alla Università della Georgia, ma posso garantirvi che nel caso lo foste, beh l’esperienza diventa unica. La città è fondata sulla musica, è orgogliosa di esserlo e non fa nulla per rinnegarlo. Non ci sono preclusioni o differenze, nella stessa serata nei vari bar che arricchiscono le notti della downtown, puoi ascoltare la trap del momento e subito dopo un pezzo di Elliott Smith senza che nessuno percepisca come “strano” o innaturale il passaggio, è cultura musicale all’ennesima potenza, convivenza civile di mondi e musiche, un’esperienza difficile da spiegare, ma assolutamente meravigliosa da vivere.

Mi sto già organizzando per tornare l’anno prossimo, ogni tanto tornare a casa è necessario.