Per quanto sia utile a proteggerli e a dare a chi li compra la certezza che non siano usati, la membrana in cellofan sui dischi nuovi è da sempre motivo di ira tra i negozianti. Righi Music diceva che serviva solo a piegare le copertine, che “col tempo, visto che la plastica si ritira (ho prove scientifiche a tal proposito), subiscono danni negli angoli”. E concludeva: “Perché c’è anche chi apre solo un lato e non toglie il cellofan, e poi si lamenta con me”.
Oscar di Double Drake/Rev Up non perdeva occasione di apostrofare i clienti che non si dimostravano in grado di togliere il cellofan. “Diobo, non hai ancora imparato ad aprire un disco?!” diceva, e procedeva con dimostrazione pratica. “Bisogna stare attenti a sfilarla via senza piegare gli angoli della copertina”. E c’era (e c’è) un solo metodo per farlo: il metodo Oscar. “Il problema della plastica attorno ai dischi è solo quello, quando la togli”, diceva Oscar. E concludeva: “Perché poi, io ho la macchina incellofanatrice di sotto, quindi il disco potrebbe anche non essere nuovo. Potrebbe, eh”. Scherzava, aveva sempre voglia di scherzare.
Lungi dal pensare che la mia opinione sia importante quanto la loro, ma vorrei dire che è vero che il cellofan è una palla, ma lo è perché quando fai una foto a un disco incellofanato viene sempre malissimo perché fa riflesso, in qualsiasi posizione tu ti metta. Righi e Oscar non potrebbero capire, perché ai loro tempi non c’era Instagram.
(NINE dei SAULT è un masterclass in rabbia e rimedio. Funk, soul, hip hop, jazz. Nelle loro canzoni i SAULT sintetizzano la storia della black music e cercano nuovi percorsi. E se nei due album del 2020 si erano concentrati sull’antirazzismo e sulla violenza della polizia in America, con NINE parlano delle periferie delle grandi città. Le raccontano, senza fomentare. La parola SAULT fa pensare ad “assault” ma NINE vuole essere un rimedio, non getta benzina sul fuoco).
Metto foto di NINE presa da internet perché per colpa del cellofan non c’è stato modo di fargli una foto per il verso.
Prendete Charles Bukowski di Post Office e mettetelo a guidare un taxi, negli Stati intorno al Mississippi. Viene fuori Lou Bishoff, il protagonista di Last Taxi Driver. E viene fuori uno spaccato sociale grottesco, di un cinismo spiazzante.
Lou Bishoff oltre a se stesso ha intorno altri personaggi speciali: carica solo avanzi di galera, tossici e spostati. Non è una scelta la sua, è che lavora per una compagnia che fa cagare. Per quanto si sforzi di essere una persona cortese, è una merda. E si sente una merda. Tutto dipende da questo: dall’insoddisfazione per la vita. La sua carriera da scrittore è finita male e ce l’ha col mondo, dice un sacco di cattiverie, alcune delle quali sono verità. Ma Lou Bishoff un briciolo di senso dell’umorismo ce l’ha quindi alla fine gli passa quasi tutto.
Da queste cose si capisce che un po’ autobiografico lo è, Last Taxi Driver. La storia di Lee Durkee infatti è assurda. Il suo primo libro risale a qualche anno fa e fu una gran fatica. Recensioni ottime ma nessuno ci fece particolarmente caso. Poi riuscì a trovare qualcuno che gli diede fiducia per far uscire l’edizione economica e rilanciarlo sul mercato. Tutto andò meravigliosamente, recensioni ottime e gran complimenti. Peccato che poco dopo ci fu l’11 settembre 2001: negli USA fu l’anno in cui si vendettero meno libri dalla Guerra Civile. “Il tascabile vendette 9 copie, credo” dice Lee Durkee.
Il suo secondo libro (questo) era atteso come il romanzo del genio disperato che si vuole riscattare, quindi tantissimo. In America uscì a fine 2019, il tour delle presentazioni iniziò a febbraio 2020, “Mi sono divertito” ha detto una sera Lee Durkee. Poi, pare che sia scoppiata una pandemia.
15. Wurld Series, “What’s growing” Rassicurante e assolutamente esaltante. E quando esaltazione e comfort diventano la stessa cosa si mette male. C’era un gruppo della mia città che negli anni ‘90 faceva roba tipo anni ‘70, non cover, canzoni originali. Ai loro concerti c’erano anche persone di 50 anni. A me facevano cagare, proprio perchè facevano roba di vent’anni prima. Adesso ci sono i Wurld Series che fanno musica di TRENTA anni fa, canzoni originali, e io li ho messi nella mia classifica di fine anno. Sono uno zio attacca pezze. Ci tengo a sottolineare che è il primo disco che farei fuori dalla classifica.
14. Hold Steady, “Open Door Policy” È un disco americanissimo, in cui spesso le chitarre sono nascoste dalla produzione e invece di esplodere implodono. Un disco in cui il norm-core incontra la tradizione rock americana di Bruce Springsteen, la mischia con l’hard core, l’indie rock e lo spoken-word ma comunque ha la meglio. Sulla carta è un disastro ma è esattamente il contrario. Craig Finn ha una capacità di scrittura invidiabile e le melodie che tira fuori rendono irresistibili tutte le canzoni. Recensione di aprile diversissima da quello che ho scritto qui.
13. Cherubs, “SLO BLO 4 FRNZ & SXY” Sono sempre loro, cambia poco, ma ascoltarli è sempre liberatorio. Molto meglio il secondo dei Bennett, che vincono quindi la menzione speciale (li amo). Però, se quello dei Bennett è meglio di quello dei Cherubs (per mille motivi, tra cui: ci sono più idee, è meno saturo, è più catchy) allora non ha senso che abbia una menzione speciale e non sia in classifica mentre quello dei Cherubs si. Quindi, metto i Bennett nella posizione n. 13 e ai Cherubs va la menzione speciale. Ora però si presenta un altro problema: i Bennett si meritano una posizione migliore della 13. Per ora, facciamo uno scambio con Laura Stevenson alla 11, ma non sono soddisfatto del tutto, vedremo cosa succede.
12. Dean Wareham, “I have nothing to say to the mayor of LA” Magistrale.
11. Laura Stevenson, “Laura Stevenson” Classico, di stomaco, elegante. Come quello di Cassandra Jenkins (spoiler), è nato per una terza persona. Laura Stevenson ha avuto da poco un figlio e si è trovata ad aiutare un amico con grossi problemi: da qui nasce il disco. Quindi in questo caso ci sono due terze persone. Le altre volte in cui ho sentito un disco dedicato ad altri, mi è sempre comunque parso in primo piano l’artista. Qui, come per CJ, a essere in primo piano è l’altra persona. Laura ovviamente canta e suona, ma scompare. In un mestiere in cui l’ego è sempre al centro, non dev’essere facile farlo scomparire. Forse significa molto, o forse è una cosa irrilevante perché comunque il disco porta il suo nome, ma in qualche modo significa che la musica e il messaggio che vuole trasmettere sono le cose più importanti. (Ho tentato di scrivere una cosa seria, ho come la vaga impressione di non esserci riuscito).
Occhio perchè entriamo nella decina.
10. Dinosaur jr, “Sweep it into Space” Uno di quei non molti dischi che ti fanno pensare che ci siano ancora dischi che ti salvano la vita e non ti fanno sentire il peso del fatto che sono sempre gli stessi. In vita da prima dei Pearl Jam ma al momento molto meglio dei Pearl Jam.
9. PS5, “Unconsciuos collective” Disco Brain fog. Un amico – che vive in Svizzera – qualche giorno a cena fa mi raccontava che dopo la terza dose ha avuto giusto un po’ di spossatezza, due linee di febbre e, come dire, come si dice in italiano, ehm, brain fog. La stessa sensazione che ho quando ascolto “Unconsciuos collective”. È elettronica, jazz, ritmi napoletani, un mix di cose di per sé non proprio originale ma che ha la sua forza nel darti l’impressione di non aver mai sentito niente di simile prima.
8. Whitney K, “Two Years” Un disco in cui i luoghi comuni si sprecano. Il cantante è un artista che si spacca di alcol e scrive ispirato dal dolore, dall’amore o semplicemente dall’alcol. Le canzoni che vengono fuori ricordano Lou Reed, i Velvet Underground, il country, Johnny Cash. Ogni cosa è al posto giusto, è accomodante. Ma le canzoni spaccano e le avrò ascoltate mille volte, senza stancarmi mai di quel modo che Whitney K. ha di giocare coi luoghi comuni e con le cose facili per farle diventare canzoni che effettivamente ti portano altrove, dov’è lui.
7. Cassandra Jenkins, “An Overwiev on Phenomenal Nature” Commovente. La genesi di questo disco sta nei due giorni di prove che CJ ha fatto come componente dei Purple Mountains. Che avrebbero dovuto partire per il tour se David Berman non si fosse suicidato. “An Overwiev on Phenomenal Nature” è dedicato a lui e a quello che ha significato per lei, pur avendolo conosciuto solo poche ore. La prima volta che ho letto questa storia ho pensato che in due giorni non puoi legarti tanto a una persona. Fino a quando non ho ascoltato il disco.
6. Moor Mother, “Black Encyclopedia of the air” Sorprendente. Non so neanche che musica sia, nel senso, non so come si possa definire, ma è magnetica. Forse è hip hop dove il ritmo non incalza, spoken-word non spoken-word. Elettronica è elettronica, però diversa da tutto il resto. È il disco che mi ha impressionato di più al primo ascolto. Al quale poi non ne sono seguiti tantissimi altri perchè non è simpatico da digerire. Ma è strabiliante.
Posizioni calde:
5. Cemento Atlantico, “Rotte interrotte” Credo che in fondo il suo messaggio sia di continuare a essere curiosi e a ri-scommettere di continuo. (Cosa che non faccio mai ma è il mio ideale di vita). Questa cosa tradotta in musica non poteva essere altro che un viaggio intorno al mondo. Il disco italiano più coraggioso di quest’anno. Recensione.
4. Justus Proffit, “Speedstar” Adorabile e con un sacco di idee per la pop song. Oltre tutto, lui è un chitarrista coi fiocchi. Per nostalgici di Elliott Smith ma non solo. Qui Justus fa un passo in avanti rispetto al disco prece, si svincola dal maestro e trova una sua meravigliosa originalità.
3. Low, “Hey, What” Distonico. In questa classifica sono gli unici paragonabili a Moor Mother o Cemento Atlantico in termini di roba nuova, gli unici con un passato di chitarre che si sono allontanati in modo evidente dal passato di chitarre. Oltre a questo, quando ascolti “Hey, What” ti sballotta da una cuffia all’altra con blocchi di suoni e voci che si alternano e prendono il sopravvento in maniera improvvisa oppure no, ma comunque invadono pesantemente il tuo campo uditivo. È tutto una goduria. “Recensione”.
2. Little Sims, “Sometimes I Might Be Introvert” Sono senza parole.
NUMERO UNO. Damien Jurado, “The Monster who hated” Bruttissimo. Sono le canzoni di Jurado, le solite. Però lui è capace di scrivere questi pezzi con una tensione incredibile, in bilico tra la calma e l’agitazione. E a volte ci mette arrangiamenti improbabili, zuccherosi, quasi anni ‘80, o un basso ingombrante come quello di Ares Tavolazzi, per dire, ma non sono mai fuori luogo, sono sempre quello che ci vuole. E ogni volta che esce un disco è bello ascoltarlo all’infinito, ancora e ancora, solo per un anno però, tanto l’anno dopo ne esce un altro. Scherzavo, è un disco bellissimo. Post imperdibile su Instagram.
Mi pare di aver scritto tutto. Se ho dimenticato qualcuno è colpa della musica in streaming.