Due per David Berman

david berman ironia e depressione

Ero appena arrivato in spiaggia quando Giacomo mi ha mandato il link relativo alla morte di David Berman. L’ho aperto e ho letto la breve notizia che informava della morte, senza spiegazioni, senza la causa che si rivelerà al mondo solo due giorni dopo: suicidio tramite impiccagione, per nulla sorprendente per chi aveva seguito la carriera di uno dei più importanti scrittori americani contemporanei. Si perché era certamente un musicista di talento, ma erano i piccoli romanzi contenuti nei suoi dischi a definirne la grandezza, la sua poetica americana fino al midollo.

I suoi testi erano spesso diapositive di interni illuminati dalla fioca luce di una lampada sui comodini di stanze di Hotel americani, scene di amanti seduti sul letto intenti a trovare le parole migliori per lasciarsi, o fotografie di solitudini impossibili da dimenticare.

Carver verrebbe da dire, e Carver è sicuramente il collegamento principale che si può fare parlando di Berman, nessuna esagerazione, la grandezza incommensurabile di questo cantautore è davvero facile da intuire, basta leggere. La sua poetica si sposava perfettamente con la musica, alt country della migliore tradizione, chitarre acustiche, elettriche slide, basso e un piano che si fa spazio nelle retrovie. Non vorrei però che si creda che la parte testuale fosse preminente nel lavoro di Berman. Seppur in piena continuità, le qualità di musichiere di Berman erano immense. Ci sono certi diamanti pop nella sua discografia che sotto al sole d’agosto accecherebbero.

Che Berman fosse amico intimo di Malkmus e che l’embrione del gruppo fosse nato con lui in un appartamento a New York non stupisce. Cosa c’è più americano e letterario di un appartamento nella grande mela? Era la fine degli anni ’80 e c’era ancora una lunga storia da scrivere.

Come dicevo ho saputo della sua morte da Suppo, foriero di belle notizie e di graziosi buongiorno, proprio il mio primo giorno di vacanza, in Romagna. Era qualche anno che non scendevo in riviera, ormai adulto e irrimediabilmente imborghesito, avevo cambiato mete per credere che, allontanando il luogo, il trasfert potesse annullarsi. Ma come Buck, quest’anno, ho sentito il richiamo della foresta fatta di ombrelloni e ho deciso di passare qualche giorno al mare con i miei amici. Appena ho toccato la sabbia, il transfert, come un non più giovane erede del dolore, mi sono ritrovato immerso nei pensieri di una perdita troppo grande per poterla archiviare come l’ennesima scomparsa di qualche vecchio cantante capitato per caso sulla mia strada di ascolti giovanili.

Tutt’altro, Berman è stato l’esatto opposto, simbolo di crescita, non so e non mi sono mai posto il problema di capire perché i Silver Jews siano stati il gruppo che più ho ascoltato negli ultimi due anni, non c’era un motivo vero. O forse deposte le armi del giovanilismo e del provare a stare al passo con i tempi a tutti i costi ho fatto pace con me stesso e mi sono convinto a fare solo ciò che mi piace. E a me piace l’indie rock americano, il cantautorato e l’alt country, ecco perché probabilmente ho scelto i Silver Jews per sublimare le mie scelte, l’America nella sua eccezione più profonda e viscerale, la sua letteratura nella sua forma più alta e raffinata. C’era tutto nei Silver Jews, tutto quello che ho sempre amato.

C’era anche tanto dolore nei testi di Berman, e rileggere l’incipit del primo pezzo del suo nuovo progetto Purple Mountains sembra profetico.

“Well, I don’t like talkin’ to myself
But someone’s gotta say it, hell
I mean, things have not been going well
This time I think I finally fucked myself
You see, the life I live is sickening
I spent a decade playing chicken with oblivion
Day to day, I’m neck and neck with giving in
I’m the same old wreck I’ve always been”.

Non si può dire che David Berman non fosse sincero e sempre molto ironico nel trattare il suo essere. Non posso dire lo stesso di me: è da quando ho avuto la notizia che indugio, nuovamente, ancora ferocemente adolescente, sulle canzoni di Berman, in spiaggia, sotto il sole romagnolo, con i vicini di ombrellone che mettono il raeggeton. Come 10 anni fa ascoltavo Jason Molina, e 20 anni fa gli Husker du. Fa molto ridere, ma comincia a essere anche fastidioso e fisicamente doloroso, a 43 anni.

Non scrivo più da tempo, perché non ne sono mai stato capace in primis, ma anche perché in questi casi alla fine mi ritrovo a scavare dentro di me invece di scrivere di chi davvero importa. Ma a sto giro non ce l’ho fatta, perchè i Silver Jews sono stati troppo importanti e troppo vicini e perché un genio va sempre onorato, soprattutto in questi anni difficili e quasi privi di umanità.

Una per David non potevo non scriverla.

Grazie di tutto anche se è da giovedì scorso che mi sento così:

“When I was summoned to the phone
I knew in my bones that you had died alone
We’d never been promised there will be a tomorrow
So let’s just call it the death of an heir of sorrows
The death of an heir of sorrows”.

Renato

Dopo aver saputo del suicidio di David Berman, il 7 agosto, la prima canzone che ho ascoltato è stata Honk if you’re lonely. È il pezzo più ballabile che abbia mai scritto ed è anche di una profondità incredibile. La puoi ascoltare per farti coraggio, perchè è questo quello che dice:

“Honk if you’re lonely tonight
If you need a friend to get through the night
A toot on your horn, a flash of your brights
Honk if you’re lonely tonight”.

Ma al centro di Honk if you’ re lonely c’è un segreto terribile, un nucleo violento e velenoso. La canzone è stata scritta nel ’98 ma quel segreto è stato svelato definitivamente solo tanti anni dopo: cinque giorni fa, con il suicidio. Quello che la canzone racconta non esiste. La radio che suona, l’honky tonk, il jukebox, un sorriso, un abbraccio, un’amante, niente di tutto questo c’è davvero, sono solo metafore, semplici rappresentazioni di una felicità possibile, oscurate dal loro stesso significato. E il loro significato è il nulla, visto che nel tempo Berman non è riuscito a trovare né la radio, né l’honky tonk, né il jukebox, né un’amante, quest’ultima almeno non per sempre. Il testo di Honk if you’re lonely è ottimista, illuso e disilluso allo stesso tempo, ironico e cinico. È Berman nel momento in cui l’ha scritta, quando ancora giocava con le parole con sguardo coraggioso, e andava all’attacco della realtà ambigua, a volte positiva, altre negativa. Ma adesso, dopo il suicidio, Honk if you’re lonely è solo la musica della disillusione. Ci vuole tempo per realizzare che l’ironica disillusione è diventata disillusione e basta. L’efficacia dell’ironia ha vita più breve rispetto alla disillusione, che invece nasce, mette le radici, cresce e va sempre più in profondità, fino a bucare il cuore.

Come a un qualsiasi uomo, anche a un poeta serve tempo per comprendere le cose. Nel periodo tra il ’98 e il 7 agosto 2019 c’è tutta la lotta di David Berman e tutto il percorso del suo arrendersi, che passa anche per un primo tentativo di suicidio nel 2003, a suon di Xanax, crack e alcolici, dopo il quale sembra però sembra ritrovare fiducia, grazie al Giudaismo e Tanglewood Numbers, il disco del 2005. Poi un altro disco, Lookout Mountain Lookout Sea (2008) e un tour, che tocca addirittura l’Europa, ultimo atto dei Silver Jews, che Berman scioglie nel 2009. Gli anni seguenti sono quelli dell’odio nei confronti del padre, che lui definisce un bastardo figlio di puttana, e del divorzio dalla moglie.
Era tornato a pubblicare musica solo quest’anno, con i Purple Mountains, e la prima canzone del disco è quella che ha citato Renato, la seconda si chiama All My Happiness Is Gone.

È più facile anestetizzare i demoni, da giovane. David aveva una mente ingombrante. Se solo fosse stato giovane per sempre, avrebbe continuato a distrarla con le sue parole spiazzanti. Ma è impossibile, ed è arrivato il momento in cui non è più riuscito a farlo. In questo senso, la sua morte rappresenta il passare del tempo. Evidentemente, Honk if you’re lonely era stata scritta troppo tempo fa, non era più abbastanza per dare a Berman il coraggio di non uccidersi. Se prima l’ascoltavo dopo una giornata di lavoro, anche sorridendo al ritornello, adesso non può più essere così. Puoi ascoltare una canzone cento volte e pensare che ti comunichi una cosa, ma quando il suo autore si ammazza, cambia tutto. E Honk if you’re lonely adesso manifesta tutta la sua vuota inconsistenza di metafore.

Dicono che la 20th Century Fox una volta avesse un ranch sulle colline, tra la valle di San Fernando e l’Oceano Pacifico, una distesa di migliaia di ettari. Il ranch non veniva usato come ranch ma per girarci i western. E, quello sopra, era il cielo che si vede in tutti i western della Fox, “il cielo della Fox”, sempre uguale. Ho saputo questa cosa leggendo un libro, non molto tempo fa, e mi è venuto in mente Berman. Anche le sue canzoni suonano sempre sotto uno stesso cielo, quel velo di incertezza onnipresente nella sua musica e nella sua voce, a volte forte, quasi un Johnny Cash, altre volte tremante, un Mark Linkous, ma sempre usata per pronunciare parole profondamente poetiche e nate da uno sguardo sensibilissimo sulla realtà. Le sue parole, la sua voce e la sua chitarra erano le cose grazie alle quali sembrava aver trovato almeno un motivo per non uccidersi. Ma era un’illusione.

“Time will break the world”.

Giacomo

3 pensieri su “Due per David Berman

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