Mare si mare no: ONO, Colonie

ono-colonie

Tagliata di Cervia è a mezz’ora di macchina da qui. Da piccoli ci passavamo tutto il mese di agosto e ogni tanto mio babbo ci portava a giocare a mini-golf. A un certo punto c’abbiamo preso talmente gusto che abbiamo iniziato ad andarci anche con gli amici. O da soli, io e mio fratello. Che s’incazzava tantissimo quando doveva aspettare perché c’era la fila per una buca (il mini-golf andava molto alla fine dei ruggenti anni 80). Una volta c’erano dei ragazzini tedeschi che facevano casino, avranno avuto 12 anni. Dopo tre secondi di pazienza gli ha urlato OH BURDEL! FASEM BASTA? che in dialetto vuol dire “ragazzi, per cortesia, vi supplico in ginocchio, potreste fare un po’ più piano?”. Sarà stato l’effetto cassetta di South of Heaven degli Slayer che aveva comprato il giorno prima ma quei bambini hanno capito il romagnolo e si sono spenti.
Di sera, ogni tanto, andavamo a Cesenatico, o a Pinarella, ed era figo. La mattina, invece, la passavamo in spiaggia. Quando facevamo il bagno mio babbo ci diceva sempre di non asciugarci con il telo ma con una corsa sulla battigia. Era divertente, c’era solo una cosa: una leggenda famigliare raccontava dello zio Francesco, che aveva corso troppo in riva al mare e gli si era asciugato un occhio. Nessuno ci credeva, ma io e mio fratello non eravamo presi benissimo a correre.
Erano le estati in cui buttavamo su la videocassetta di Il secondo tragico Fantozzi a ripetizione e ridevamo per ore, ma erano anche gli anni in cui pure l’elettricista di famiglia di cognome faceva Fantozzi. Così, quando un giorno mia nonna suonò il campanello della casa di Tagliata e urlò “Bambini venite giù che c’è Fantozzi!”, noi, sul momento, rispondemmo “E chi se ne frega di Fantozzi?”. “Fantozzi l’attore!” disse lei.
WOW. E ci siamo fiondati. Stavano girando Rimini Rimini in un hotel lì vicino e per noi era un po’ come per mia nonna andare sul set di Ben Hur. In quell’occasione abbiamo imparato due cose. La prima è che gli attori se la tirano: Paolo Villaggio non ci degnò neanche di uno sguardo, voglio dire, ok che stai lavorando (lavorando..) ma un sorriso, un buffetto, qualcosa. Niente. La seconda è che al cinema, se dicono che un posto è Rimini, potrebbe essere anche Tagliata.
Tornando in spiaggia, una regola che la nonna usava per tarparci le ali era che prima di fare il bagno “dopo pranzo si aspetta tre ore”. Così, anche se dopo 10 minuti avevi la fotta di tuffarti e stare sei ore in acqua solo per disobbedire all’altra regola, quella delle dita raggrinzite,

(dita raggrinzite = fuori dall’acqua),

dovevi aspettare altre due ore e cinquanta, precise, anche se avevi mangiato un panino piccolo. Sennò morivi. Tanti i precedenti, l’esempio tipico era quello della signora a Cesenatico che l’altro giorno aveva mangiato una mela, aveva messo subito un piede in acqua e le era venuto un infarto. Col tempo le cose cambiarono in modo imprevedibile e a un certo punto si poteva fare il bagno subito dopo mangiato, prima che iniziasse la digestione, ma per poco. Un assaggino. Dopo un po’ ho iniziato a odiare tutti perché il bagno era l’unico momento in cui ero lontano dagli adulti, che ci guardavano da riva, e se durava poco era un pacco.
Il mio rapporto con Tagliata si è risolto in: fase 1, potrei essere ovunque, va bene anche qui; fase 2, odio; fase 3, mi piace tantisissimo. Che poi sono i classici cambiamenti rispetto a una scelta imposta dai genitori per molto tempo. I momenti di rabbia in acqua subito dopo pranzo erano il segno del passaggio alla fase due, durante la quale bevevo dei gran succhi di frutta all’albicocca sotto all’ombrellone e mia mamma urlava perché non stavo mai al sole. È quando la voce della Motonave Ghibli che passava ogni mattina a colazione ad annunciare in italiano e in tedesco la gita in alto mare smise di essere un divertimento e diventò un ritornello, tipo il giorno della marmotta. In quel periodo, mia nonna mi diceva sempre di non camminare in pineta a piedi nudi perché c’erano le siringhe drogate. E proprio in pineta, di fronte a una famiglia che faceva un picnic, ho capito che non avevo più voglia di stare lì. Era un posto per famiglie e lo snobbavo. Non m’interessava Riccione, volevo andare dov’erano le mie cose e i miei amici. Proiettavo me stesso in un futuro uguale a quello dei miei genitori, che stavano così bene a Tagliata, e mi sembrava impossibile.
A febbraio 2015 un’alluvione ha distrutto una parte della pineta. Una domenica mattina ci sono passato davanti e mi sono sentito spaccato in due. In quel momento, sono entrato nella fase tre.

Cesenatico e Pinarella erano le nostre colonne d’Ercole sulla Statale Adriatica: mai stati un metro più in là. Savignano e Gatteo a Mare erano a uno sputo ma li avevo sentiti nominare a mala pena. Ponente è la prima canzone del nuovo ep degli ONO, Colonie. È anche il nome che si usa per indicare la parte a ovest del porto canale di Cesenatico e le colonie sono quei casermoni dove i bambini trascorrevano le vacanze abbandonati dai genitori che se ne volevano liberare per un po’. Alcune sembravano le enclave di un regime lontano. Erano dappertutto, pullulavano di ragazzetti. Oggi gli stabili ci sono ancora ma molti sono in disuso.
Le storie degli ONO sono ambientate in tutti questi posti, che nella mia testa fanno parte di un solo passato. Quel pezzo di costa, isolato da quello che lo circonda, diverso da Milano Marittima e Rimini, bello per quello, senza movida ma con delle storie diverse, che ti portano ad avere voglia di calma e profondità.

Quando arrivarono i russi al mare
trovarono mia nonna stesa al sole,
pareo floreale, parole crociate, costume intero e cream solare
“dopo pranzo si aspetta tre ore”,
mio nonno in canottiera bianca a abbronzatura da muratore

Quando arrivarono i tedeschi in Riviera
cercavano spiagge e infinite e movida fino a sera
li vedevo beatamente fuori posto,
tornando dalla colonia, ormai è agosto
gli ombrelloni vuoti e le spiagge sgombre,
non ho ancora il diario per settembre.

(Ponente)

Nei primi 35 secondi, più che a Ponente di Cesenatico Ponente mi spedisce ai Caraibi. Ma basta una chitarra subito dopo per trasformare i Caraibi in Tagliata. Ponente è il punto di partenza. Poi c’è una parentesi, lunga due canzoni (Un uomo che dormeBabilonia), che sembrano raccontare la voglia di andare lontano da quel mare e di scrivere una cosa che non c’entri per forza col maledetto mare adriatico costa romagnola triste. E vengono fuori due pezzi sulla sensazione di dissociazione rispetto a quello che non mi piace, all’abitudine e a quello che non riconosco più come mio: Babilonia e Un uomo che dorme.
Il testo di Babilonia sembra non andare avanti mai. Rimane fermo, è un blocco pesante di parole che girano a vuoto. La ripetizione insiste sui pensieri di un tipo che mentre la tipa gli chiede di parlarle delle sue storie, lui pensa a come potrebbe spendere meglio il suo tempo e la risposta è da suo nonno. Babilonia procede come un blob che ingloba se stesso e cresce metro dopo metro. Usa le Hawaii come immagine del paradiso ma, alla fine, la conclusione è che è meglio altro. Le colonie per esempio.
Un uomo che dorme invece è un elenco di cose che fanno strippare. Mi posso riconoscere o no, fatto sta che la canzone monta così tanto che sul finale sono preso bene da un coro rassegnato, ma perfetto per ballare, che dice <che presa male, che presa male che c’è>. E questa cosa del coro irresistibile della presa male la trovo fortissima, nel senso che ha il fascino del bello e del brutto insieme. Questa sensazione di equilibrio sbagliato è il cuore del disco. Le canzoni potranno anche tentare di parlare d’altro, ma alla fine la sensazione che le domina tutte è la stessa che provi di fronte a questo mare.
E Risacca chiude il conto. Lo scopo di quello che hai imparato da un orto è capire dove termina il mare, dice il nonno. Va a finire tutto lì, non un metro più in là da quel pezzo di costa, quella parte di riviera che Riviera non è mai stata.

La musica di Colonie è elettronica, basso e chitarra distorti, batteria, cori e qualche tromba. Gli Offlaga Disco pax, i Diaframma e i Daft Punk potrebbero essere i riferimenti. La chitarra è quella che strippa di più e sembra proprio sociopatica, a volte tiene in piedi tutto, a volte lo insegue. A volte mi ricorda, e non era previsto per niente, quella dei Do Nascimiento. La voce più che altro parla e porta il rap dentro a post punk e new wave. Comunque, sarebbe sbagliato ridurre tutto a qualche genere, Colonie è l’esito di un’esigenza che va oltre il desiderio di fare un album senza troppo di prestabilito. Per esempio, quelli che oggi fanno un disco screamo, decidono di fare un disco screamo a priori e scrivono cose sulla base di quella decisione, accantonando la possibilità che potrebbe nascere qualcosa di diverso. Identificarsi in un genere può essere la morte della creatività. Gli ONO se ne tagliano fuori. Hanno fatto un disco un po’ parlato un po’ cantato un po’ vocoder, un po’ tastiere, con la batteria importante solo a volte e le chitarre emo, post rock o che all’improvviso si spaccano di assoli all’italiana (Risacca) o anni ottanta (Babilonia). In questo contesto musicale prende spazio il racconto. Denso tanto quanto autistico, scava in profondità e arriva a infilarsi nella parte del cervello che trattiene i ricordi, lo fa con così tanta insistenza da diventare famigliare per loro. È un livello di penetrazione abbastanza profondo, che usa i ricordi (dell’autore) per riportare a galla i ricordi (miei), quindi attiva un processo di associazione. Da questo metodo, che genera calore affettivo tra me e chi suona, scaturisce a volte la voglia scappare dal mondo descritto, a volte la gioia di farne parte. Il limite sta nel fatto che se non conosci questa parte triste della costa perdi un po’ del messaggio. Ma, alla fine, la sensazione generale è comune. Il racconto è mitico ma triste e tira fuori la caratteristica giusta, quella che, a una certa, molti finiscono per riconoscere come preferibile: la bellezza della desolazione.

Il disegno sulla copertina è di Francesco Farabegoli e mi ricorda la Motonave Ghibli.

Ascolta Colonie in streaming

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