Calcutta: il solito amore

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Il concerto di Calcutta al Bronson era sold out da qualche giorno. Io volevo andare, ma non ho neanche strippato quando i biglietti sono esauriti. Un’altra volta al Sidro me l’ero perso perché non avevo prenotato e alla fine il locale era stato costretto a fare due concerti, la stessa sera, una cosa che è successa anche ai Flippers al FreakOut. Se continuo a rimandare ci sarò un motivo. Ieri pomeriggio però mi è salita un po’ di rogna e ho incominciato a cercare un biglietto. Qualcuno scriveva sulla bacheca del Bronson “ho un biglietto” e un minuto dopo era già scomparso. Niente da fare, avevo deciso di rimandare alla prossima. Alle 20:30 la fortuna batte il suo colpo: mi telefona di un’amica che mi offre un biglietto, dopo un attimo e alcuni sguardi scambiati con la mia ragazza vinco l’indecisione e salto su.

Il concerto è stato anche bello. Lui ha una bella voce, parla in romanesco tra un pezzo e un altro, dedica canzoni a amici che nessuno conosce ed è difficile che ti stia antipatico, il gruppo suona talmente bene da sembrare una base –  il gruppo suona bene ma sembra una base – e io pensavo che con il sold out e tutto quanto ci sarebbe stato più casino, più gente che canta a squarciagola e braccia alzate. Invece alla fine Frosinone e Cosa mi manchi a fare, i due singoloni, riscuotono un successo totale, di meno Gaetano e Dal verde, sempre meno gli altri pezzi. È il solito amore, quindi, non è un amore più grande di altri, quello che il pubblico ha per Calcutta, il solito amore per due pezzi famosissimi in questo momento e che portano tanta gente ai concerti. Non voglio fare un discorso in prospettiva, non so cosa succederà al prossimo album, se i locali saranno ancora pieni per lui oppure no, ma adesso la reazione è la solita, niente che vada oltre la normalità. Ho visto concerti con meno gente ma che cantava e aveva voglia di farsi male in tutte le canzoni. Le eccezioni sono quelle.

Infatti, Calcutta, Frosinone e Cosa mi manchi a fare, decide di farle due volte, la seconda in una alt-version da solo con la chitarra oppure seduto. In fondo ha due dischi, una scaletta di 20 canzoni potrebbe pure tirarla fuori, invece no. Capisco il motivo, sono quelle che vuole la gente, ma è una cosa che intristisce me, figurati lui. Provo a guardare le cose dal suo punto di vista: vedi la gente che impazzisce per quei due pezzi, per gli altri così così, e quando rifai Frosinone e Cosa mi manchi a fare si risvegliano tutti, su quei due pezzi, che senti dopo gli U2 all’A&O (mi è successo), che tutti conoscono, che hanno il ritmo più accattivante di tutti. La gente se li accolta in loop e il resto se lo caga poco. A un certo punto, prima dei bis (leggi: rifaccio quelle due), un ragazzo dietro di me, soddisfatto di aver appena sentito quello che voleva sentire, ha detto “beh, basta adesso no? che altre canzoni deve fare?!”. A un certo punto Calcutta ha pure detto che non hanno i pezzi. E ha mentito. I due dischi sommati fanno 22, preparali, suonali. Non hai i pezzi in cui la gente si strappa i capelli, ecco, e tu vuoi assecondare questa tendenza, non far ascoltare il più possibile anche le altre cose che hai scritto.

Calcutta o lo ami o lo odi mi hanno detto. Come il colore viola, come la Juve. A me sembra un po’ esagerato, perché io sto proprio nel mezzo. Vedrai, dopo il concerto ti schiererai, mi hanno detto. Non impazzisco, ma qualcosa mi fa muovere i piedini insieme alle altre 1000 persone che lo fanno, mi fa sentire un po’ incompreso, un po’ coinvolto in quelle canzoni ma solo un po’, anche perché ormai ho 40 anni e Calcutta canta di cose che vanno bene a 25. I testi sono carini, ripetitivi e subito memorizzabili, le melodie catchy, il disco, quello fatto con I Cani, me lo ascolto anche, l’altro mi piace di più perché è meno catchy. Non dò troppa importanza all’hype, cerco di starne fuori, e mi rendo conto che ci sono parti poetiche toccanti ma in fondo non è tutto questo granché. Dopo il concerto, la penso ancora allo stesso modo.

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