Cosa vi viene in mente se dico ascensore? A me tre cose. Mia mamma che dice “chiama l’ascensore!” e io che inizio a urlare – ero sveglio da piccolo. I miei genitori che partono per un viaggio e lasciano la valigia nell’ascensore quand’ero un po’ più grande – adesso capite da chi ho preso. E quella volta in cui ero chiuso nell’ascensore dell’ipermercato con un signore con un alito pazzesco, pochi anni fa. L’immaginario legato alle parole è soggetto a una continua stratificazione di significati.
E se invece dico caribou? Caribou, Daniel Victor Snaith, Daphni, Manitoba, sun sun sun. Oppure Caribou, la prima canzone del primo disco dei Pixies, quella con cui si sono palesati al mondo su 4AD nell’87. L’ultima volta che l’ho sentita è stata oggi. L’ultima volta che ho sentito Caribou mesi fa. I ricordi si raccolgono a strati sulle parole ma il primo strato rimane sempre quello che arriva più in profondità.
Penso a Caribou quando ascolto il disco degli Any Other. Loro riescono ad ammorbidire l’aggressività di quella canzone con la delicatezza dei Bedhead di What Fun Life Was e ad arrotondarne la punta degli spigoli con la scioltezza di There Is Nothing Wrong About Love dei Built To Spill. Questo è il cuore degli Any Other, o almeno una sua parte. Senti il crescendo finale di To The Kino, Again e poi muori. Ma prima di morire volevo aggiungere che dentro a Silently. Quietly. Going Away ci sono prima di tutto gli Any Other. Marco suona il basso molto consapevole di tutta la lezione dell’indie rock anni 90, personalizzandola con giri coraggiosi e neanche facili (questo l’ha detto quello di cui io regolarmente sono ghost writer, G.). Erica suona la batteria con con una sensibilità grandissima che si adatta perfettamente ai picchi e alle depressioni della scrittura. Adele canta, suona la chitarra e scrive i pezzi. Unisce insicurezza e sicurezza e l’arco di situazioni in cui ti puoi trovare ascoltando le sue canzoni è molto ampio. A bocca aperta, a occhi chiusi, coi capelli dritti, a testa in giù. Ma è dal vivo che gli Any Other danno il meglio.
La collina delle discoteche di Riccione per me era un’ombra, più o meno dietro casa, fino al 21 agosto di quest’anno. Quella sera partiamo, arriviamo alle rotonde che stanno sotto la collina, sbagliamo strada, accendiamo solo in quel momento il navigatore. Siamo in ritardo, parcheggiamo rimbalzando tra le buche del terreno, scendiamo dalla macchina, io personalmente centro in pieno un cratere col piede sinistro, ne esco vivo, un attimo e siamo nel parco del Castello degli Agolanti per il Tafuzzy Days. Come per magia, sulla collina sopra alla cupola del Cocoricò. Mito sfatato, eccoci qua, a guardare il cielo esattamente come su qualsiasi altra collina. Oh! Dai che gli Any Other hanno già iniziato, sbrigati, ma quante canzoni hanno fatto?, è la prima, ah ok. Adesso ce li guardiamo.
In tre insieme sul palco sono la perfetta rappresentazione della profondità delle loro canzoni. Il bassista sempre con la stessa espressione tranquilla che dentro bolle di tensione, o almeno io lo vedo così, la batterista con gli occhi sbarrati che salta sullo sgabello, la cantante che ha perfettamente il polso della situazione, lo nasconde molto bene e forse involontariamente, ma ce l’ha. È a metà tra lo scafato e l’imbarazzato, esattamente come il finale di Sonnet #4, romantico e ferito ma sereno. Come Something, definitivamente decisa, o nostalgica come Blue Moon e nel bel mezzo di un cambiamento, come in Gladly Farewell. O in cerca di una risposta (365 days). Insomma, la faccenda è complessa. Dal vivo ho scoperto anche che sorridono e che tra loro c’è quella sintonia di cui si parla spesso quando si parla di gruppi ma che non sempre si riscontra davvero.
Da qualche giorno c’è lo streaming del disco, che a un mese esatto dal concerto di Riccione sarà pronto per le spedizioni. Sentiremo parlare di loro. Per ora l’attesa si alimenta con ciò che abbiamo già, il tempo passa e gli ascolti, come i ricordi, si sovrappongono. La prima volta che ho sentito gli Any Other sono rimasto a bocca aperta. Quella sensazione rimane la più profonda.
Pingback: Mt.Zuma e altre cose che secondo me c’entrano con loro | neuroni