Il secondo album di Felpa (già Magpie) è fatto di batterie lente che ricordano Zuma, di bassi che fanno giri infiniti, di altri suoni che non ho scoperto subito e di chitarre shoegaze che danno l’idea dello spazio grandissimo. Quella di Paura mai ha quel modo di muoversi sensuale e oscuro che mi ricorda Havah. New wave. Ma è una piccola parte di testo che ho trovato più significativa: “Resteremo soli fin quando non troveremo il fine”. La canzone è Momenti, alterna distorsioni e dilatazioni e parla anche di solitudine. C’è un altro pezzo di testo che devo trascrivere per dare un senso a quello che sto pensando di scrivere, quello di Paura mai che dice “Ma resterò accanto a te / per quanto mi sarà concesso / e nel buio non avrai / paura mai”. Uno e l’altro contengono la speranza di non essere soli, un giorno, ma non conosciamo il momento preciso in cui questo succederà. Il futuro è il tempo verbale dell’incertezza. Paura mai concretizza il fine di Momenti, ma il fine ha una scadenza, il tempo che ci sarà concesso per non essere soli. Poi, dovremo ripartire daccapo. Quel testo di Paura mai dice che vincere la solitudine ci serve per vincere la paura, e la guerra contro la paura è il terreno su cui combatte tutto il disco, a volte vince a volte perde. Quando vince, lo fa in un futuro indefinitissimo, e la vittoria diventa solo un’ipotesi (Accanto a te). Comunque, c’è una lotta per cercare di capire come cazzo fare.
Anche Abbandono (2013) si preoccupava degli stessi temi, ma era più aggressivo. Mi piace di più Paura, più potente, e decisissimo sull’essere tematicamente insicuro ma musicalmente sicurissimo. Le canzoni sono un grande blob unico e irregolare, con momenti di esplosione (Inverno dopo Buio) e poi di calma (Spazio e Stanotte). Come la melodia dilatata è importante negli Slowdive lo è anche in Felpa, che gioca col suo strumento, la chitarra, e tira fuori dei giri che partono (quasi) isolati, mi mettono l’angoscia nello stomaco, poi si trasformano, si sovrappongono e s’incrociano in un bellissimo lavoro di missaggio (Accanto a te). In quegli attimi sono lassù nel cielo, ma è un inganno. Attacca Sempre dopo e sono al punto di partenza. Il blob è in azione, gira intorno a un punto fisso, replica le parole da una canzone all’altra, i pensieri, le batterie in 4/4, i temi del disco precedente, i suoni. Dopo l’inizio con Buio e Inverno, e tutto un giro nel mezzo, come se Felpa giocasse a ping pong con i pezzi della paura che ha distrutto, e poi ricostruito, con le chitarre che ci girano attorno, il disco finisce con Estate e Luce, ma Estate dice che il giorno ritornerà e Luce è la canzone con la chitarra più pesa del disco, nonostante lo xilofono. “Non avrò paura/non ho più paura” è il ritornello che si ripete per autoconvincersi. Il disco si chiude nel nome del contrasto, che aleggia in tutto l’album, tra il testo e la musica, il primo è positivo, la seconda no. La paura non perde e non vince mai in modo definitivo.
Felpa è sempre dentro un confronto ravvicinatissimo con un tu che sta prima o dopo la solitudine. Come Havah. Ma Havah è più cattivo in Durante un assedio, nei suoi testi sento il disprezzo, in Paura sento l’amore, per una donna o per un amico. Ci sono certi momenti in cui quel tu è al centro del discorso e altri in cui Felpa lo spara nell’universo e lo allontana, o si auto-spara nell’universo e si allontana: lì, vincere la solitudine è impossibile. Virginia, un’amica, mi diceva sempre quanto le piacesse stare sola, in alcuni momenti, per scelta, non perché lo fosse nella vita, quello è un altro discorso. Adesso non può più dirmelo. La morte di una persona lascia in una condizione di solitudine assoluta rispetto a quella persona. Quella solitudine esisterà per sempre, non esiste neanche l’ipotesi di sconfiggerla, perché ognuno di noi la lascerà in eredità a qualcun altro.
La mia felpa nera col cappuccio. Matteo Salvini sta facendo passare della felpa un’immagine sbagliatissima, con tutte quelle scritte qualunquiste, indossata come porta-slogan da esibire in televisione. La felpa può essere anche quella degli stronzi con la celtica davanti. L’altra visione della felpa, quella giusta, è l’esatto opposto: un indumento da indossare per stare in disparte e farsi gli affari propri. (che poi il nome di Felpa non è davvero Felpa, se guardate le copertine: è Felp a, Fel pa, Fel p a, ma non posso dire con sicurezza che la cosa abbia un significato).
La mia felpa è nera, senza stampe, col cappuccio, molto più utile rispetto a quella con la cerniera di Salvini: quando si mette a piovere all’improvviso tiro su il cappuccio e ho risolto il problema. La vita della mia felpa col cappuccio è divisa in 4 fasi. Mi ricorda la Montagnola di Bologna, l’ho comprata lì, e da lì è partita la fase A: la mettevo sempre. Poi mi ricorda Socialismo tascabile degli Offlaga Disco Pax, negli auricolari sotto al cappuccio. Quando andavo a correre lo ascoltavo spesso, lanciato sul ponte sul fiume Savio, pioggia, neve, nebbia, col filo che passava sotto e andava a finire nel lettore cd portatile sistemato ogni volta in un punto più scomodo. Il posto meno peggio era la tascona unica sulla pancia, perché quella della mia felpa ha le dimensioni giuste per far ballare in modo tollerabile il lettore (aveva, adesso ha ceduto un po’). Certo, con l’iPod questo problema è scomparso. E questa era la fase B: la mettevo per andare a correre. La fase C è adesso: la metto ogni tanto, la sto abbandonando. Finirà nel sacchettone di plastica delle cose che ho smesso di portare (fase D).
Ma una volta la felpa nera era come il bozzolo dentro al quale superavo la tristezza della solitudine rimanendo solo, e vincevo per un po’ le mie paure, sotto al cappuccio. Cose da ragazzetti ma che mi hanno insegnato ad aver rispetto del desiderio di stare soli. La mia felpa nera, più avanti, quando la tirerò fuori dal sacchetto perché sarà diventata vintage per mio figlio, avrà la stessa utilità per lui. Poi anche lui un giorno si illudera’ di essere alla fase D e di aver vinto la solitudine e la paura. A provare improvvisamente il contrario a me, adesso, c’è Paura, il secondo disco di uno che (forse) si chiama come la mia felpa. Ascoltarlo è ritornare alla fase A, o al limite la B, dentro c’è la stessa battaglia. E non so perché (davvero) prima di oggi Felpa non mi aveva mai ricordato la mia felpa nera col cappuccio: alla fine dei conti è chiaro che la solitudine e la paura sono e sono state sempre lì.