Il concerto degli Alvvays è iniziato lunedì. Di mattina mentre sono al lavoro la mia ragazza mi manda una mail, oggetto STAY FOOLISH. “Sentivo questi tipi canadesi, gli ALVVAYS che spaccano, li ho trovati per caso spulciando i concerti di rock indipendente a new york nei prossimi mesi (dove sono sold out da mesi, anche nelle altre date negli stati uniti) e mi accorgo che tipo QUESTO VENERDì SUONANO A MILANO e ho pensato: tu il venerdì pomeriggio sei a casa, io faccio venire l’Enrica, andiamo a Milano a vederli? Andiamo su con calma ma torniamo appena finisce il concerto. E poi sabato si fa quel che si può. E siccome sono eccitatissima come se avessi 15 anni avevo bisogno di dirtelo subito” (stampatello dove l’ha messo lei).
Venerdi (ieri) alle 5 del pomeriggio partiamo. Prendo caffè per tutto il tempo fino a mezzogiorno, riposino di 2 ore dopo pranzo, caffè al risveglio. È la preparazione. Alle 3 di stamattina, arrivati a casa, ero ancora carico come una mina. Lunedì abbiamo prenotato i biglietti, martedì non ne abbiamo parlato, mercoledì c’è preso male il viaggio lunghissimo, giovedì Annalisa ha cantato da dio a Sanremo e ci siamo riconvinti, venerdì alle 19:30 ci fermiamo all’Autogrill dopo lo svincolo per Bergamo-Brescia, quello costruito come un ponte sopra all’autostrada, c’è la neve, le luci sopra all’ingresso, praticamente è Natale. Andiamo a pisciare, io prendo un caffè, alcuni ragazzi appena usciti dal lavoro si fanno un frizzantino. Inizia il weekend lombardo.
Il Lo-Fi non è lontano dalla stazione di Milano Rogoredo, in una zona industriale chiusa in una specie di semicerchio che da una parte ha le case, dall’altra la ferrovia. Io abito a Gatteo quindi mi stupisco, sapendo di essere fuori dal mondo, di una opel kadett bordeaux parcheggiata in doppia fila perpendicolare al senso di marcia sotto a un semaforo, del tipo in tuta che fuma una paglia in mezzo a viale Ungheria e quando lo sfioriamo in macchina c’ignora e inizia a chattare a due mani sul telefono, dell’altro tipo in tuta che attraversa la strada come se stesse andando dalla cucina al divano. È buio, i palazzi attorno sono scuri, con tantissimi occhi, e grandi. Mangiamo un trancio di pizza buono in un posto che si chiama “Alla Toscana” dove ci trattano meglio che in qualsiasi ristorante della Romagna, prendiamo un caffè in un bar dove danno Black Hole Sun e andiamo a fare la fila al Lo-Fi.
Dentro è bello, anticamera col bar e col dj, sala concerto lunga, stretta e buia, come il Covo ma un po’ più piccolo. Il batterista dei canadesi Moon King è un dritto, gli altri Moon King sono 3: una ragazza che all’inizio sembra essere solo la chitarrista poi diventa la frontgirl, un ragazzo che all’inizio sembra il frontman poi diventa uno che ogni tanto canta e suona qualcosa oltre a pazzeggiare sul palco, un altro chitarrista che ha tenuto la papalina e l’eskimo per tutto il tempo e ha suonato la chitarra poco pur tenendola sempre a tracolla sopra al giubbotto e alcune volte quello che ha fatto con la chitarra è stato bello. Suonano tre accordi benissimo, e mi prende bene almeno tanto quanto alla chitarrista che salta come se per la prima volta avesse appena rotto il ghiaccio di fronte a un pubblico tutto sommato numeroso.
Gli Alvvays dal vivo sono molto bravi, più che su disco, perdono quel distorto finto e patinato e lo mettono giù solo distorto, hanno tutti le facce simpatiche e la cantante ha gli occhi spenti fissi al fondo della sala. Si sente il loro peso quando canta. Il modo sbrigativo di dire le cose belle tra una canzone e l’altra è simpatico e un po’ provocatorio e quello di stupirsi scambiandosi sorrisi con la tastierista perché le prime tre file stanno ballando come matte sembra davvero sorpreso. Sono presi bene e tornano per il bis. Lei è troppo bionda perché sotto le luci le si veda il viso nelle foto del mio smartphone, ma ha una voce incredibile. Il chitarrista ha un suono rozzissimo, il basso e la batteria tengono su tutto con la stessa facilità con cui dentro alla sala è stata organizzata una specie di festa e c’è qualcuno che puzza di brutto vicino a noi, ma non fa niente. Molly Rankin più parla più il suo essere gentile e glaciale si lega in qualche modo alla desolazione dei suoi occhi. Che sono dentro alla sua chitarra e che arrivano là in fondo, dove la sala è vuota perché lì ci stanno quelli che non si cagano troppo il concerto e non si accorgono di quello che sta succedendo. E dentro quegli occhi c’è il sorriso della mia morosa che si volta verso di me a un certo punto, molto contenta di aver scritto quella mail da quindicenne. The Agency Group la fanno circa a metà serata, è la mia preferita e tutti sembrano essere più contenti di me ma sono contento anch’io. È una di quelle serate in cui tutto sembra toccarmi e non toccarmi allo stesso tempo, cioè mi rendo conto che c’è della malinconia grossa là dentro ma mi scivola via al 100%, mi piace, e si balla un po’ languidi un po’ no, e a me piace un sacco guardare le sagome nere delle persone che si muovono. A mezzanotte ripartiamo per Gatteo, 2 ore e 53 minuti da casello a casello, all’altezza dello svincolo lombardo c’è meno nebbia di prima e alla radio dicono che hanno eliminato Raf dal festival di Sanremo. Ma noi siamo stati a una festa, a Milano per giunta. L’indomani mattina, la moglie va a lavorare, il marito dorme.