Creator inizia con un temporale, come ce ne sono stati tanti quest’anno in Agosto. Se vai nei negozi di dischi il 10 Agosto ti dicono che non esce più niente fino a fine del mese o addirittura a Settembre. La sensazione era la stessa quando a fine anno salutavi i compagni di classe, quelli che preferivi, perché tra una cosa e un’altra d’estate non ci si vedeva. Ciao e a Settembre. E prima di Settembre ogni estate cresci di più, è una sensazione che avevo allora, è una sensazione che ho anche adesso, ma forse mi si è attaccata addosso per tutte le volte che l’ho avuta. Tornavi a scuola e qualcosa in te era sempre diverso, poi invece vedevi quella tua compagna di classe che era sempre uguale, ogni anno, e in terza media t’innamoravi della sua irraggiungibile, glaciale coerenza. A fine Agosto inizio Settembre escono molti dischi, e li aspetti come aspettavi di vedere quella ragazza, ogni anno di più. D’estate, a fine agosto, ho comprato il mio primo disco, un picture disc di Angel Dust.
Agosto 1988. Il giorno in cui è uscito Creator di sicuro a un certo punto mi sono scaccolato sotto l’ombrellone a Tagliata di Cervia. Ero un bambino mammone, non sapevo chi fossero i Lemonheads, ma sapevo cosa fossero i temporali. Una volta al mare con mia mamma ho visto un uomo che faceva windsurf durante una burrasca fortissima. A un certo punto è scomparso nell’acqua e non è più venuto fuori, ma il giorno dopo sul giornale non c’era scritto niente. Che fine ha fatto non l’abbiamo mai saputo.
La prima volta che ascoltai Creator non fu un temporale, ma solo perché avevo già sentito Hate Your Friends. All’altezza di Creator Evan Dando era già i Lemonheads, anche se ancora non era così chiaro, cioè: Deily non se n’era ancora andato ma lo avrebbe fatto poco dopo. Oggi Creator è fuori dal mio variabile podio Lemonheads, qualche chilometro dopo It’s A Shame About Ray, Hate Your Friends e The Lemonheads. È perché tendo sempre a metterlo in coda a Hate Your Friends, come se fosse una sua emanazione dall’impatto diverso e minore, un primo passaggio dall’hardcore punk a qualcosa di ugualmente distorto ma più lento. Hate Your Friends è un disco serio e diretto, che tende a una perfetta interpretazione personale degli Husker Du, e ce la fa, con Uhhh e Fed Up che prevedono già altro, l’altro di Creator e di Lick. Lick è il disco più potente (nel senso di corposo), che spesso nel tempo è salito sul podio sbilenco, soprattutto quando per la carica davo calci contro il muro di casa e mi facevo male con Cazzo di ferro. Mi sembrava veramente impossibile ed esaltante che una canzone si chiamasse CAZZO DI FERRO. Lovey è il disco del rimaneggiamento della formazione da parte del capo, un disco che mi spiazza ancora e mi stanca molto presto, perché è ruvido ma anche accomodante, e non ci sto dentro con tutte quelle direzioni che prende, e perché inizia con Ballarat che è il massimo e prosegue con Half the Time, la canzone col culo più sporco del triennio che stava per cominciare, quello Grunge.
Fin qui, il primo tempo.
Secondo tempo. It’s A Shame About Ray è il disco migliore dei Lemonheads come Dirty è il migliore dei Sonic Youth. In entrambi c’è la voglia di dire ciao sono qua, e anch’io so scrivere canzoni che vi piacciono, stronzi – che a volte è male, altre porta finalmente alla collisione delle due parti di un’anima. Ecco, quello è il momento in cui Evan Dando si fa vedere come vorrebbe ma anche come non vorrebbe. “Evan Dando” è anche il nome perfetto per avere donne e successo. E infatti succede, con un picco di notorietà che manda in cassa i tardo-adolescenti di ogni sesso: la partecipazione alla colonna musicale di Empire Records. Ha urlato a tutti il suo talento ambivalente e la forza delle sue debolezze come uomo e come musicista, poi si è spaventato e si è tirato indietro, gestendo meglio i tempi rispetto a Kurt Cobain. Dopo il 1996, di album nuovi dei Lemonheads non se ne parla più per dieci anni. Adesso Evan Dando vive lì, in quel limbo fatto della consapevolezza di essere fuori dal giro ma anche della possibilità di fare un disco nuovo e tornare al centro dell’attenzione in tutto il mondo, per un po’. Ha lo stesso fascino di quel surfista che ho visto in mare. C’era, poi non c’era più. Ci sarà ancora? Ed era capace di affrontare con talento un mare già seminato da altri, quello della scrittura hard core punk, ma anche del pop, per poi scomparire. Lui, la mia ragazza un giorno ha deciso di chiamarlo la solitudine del maratoneta, e da quel giorno nella mia testa è sempre stato un maratoneta solo. In It’s A Shame About Ray c’è lui triste, lui drogato, lui allegro, lui smanato, disturbato, piacente. Come On Feel The Lemonheads e Car Button Cloth sono una parte di tutto questo, non sono quello che Evan Dando avrebbe voluto. Troppo lisci, troppo acquietati, troppo lunghi, così Evan Dando se ne va in pensione per 10 anni, e fa bene. Anche se il giro di chitarra di Break Me rimane uno dei migliori, Hospital l’episodio compositivo più basso di tutta la storia dei Lemonheads e Losing Your Mind uno dei più struggenti. Insomma, un vero casino. Ma è un album forte di alcuni singoli episodi, non nel suo insieme.
The Lemonheads, 2006, dieci anni dopo. L’ego e la chitarra di J. Mascis sono tanto più grandi (cioè invadenti) -persino di quelli di Dando- che Mascis riesce a far scrivere a Dando l’album Dinosaur Jr dei Lemonheads pur occupandosi solo delle parti di chiatarra solista. È un disco per il quale hanno fatto battaglia, Mascis fa l’amico che partecipa solo ma lo fa solo per finta e la sua ombra finisce su tutto il disco. Dando, dall’ego grande uguale ma più irrequieto e meno aggressivo, la avverte e la subisce. The Lemonheads è l’equilibrio tra serenità e inquietudine e tradisce un’insicurezza che riguarda non la scrittura ma la persona -la stessa dolce insicurezza di Hotel Sessions- e per questo è uno degli album più completi.
Poi basta coi dischi nuovi dei Lemonheads.
Ci piace l’idea di sentirci perdenti, ma alla fine aspiriamo sempre a raggiungere una qualche meta, piccola, che, se raggiunta, possa conciliarsi col nostro sentirci degli sconfitti. La sensibilità di Evan Dando è la risposta non definitiva, ma comunque una risposta, alla lotta tra quello a cui aspiriamo come persone che vorrebbero vincere e quello che proviamo come persone che si sentono perdenti e alla fine stanno bene nel loro brodo. L’insoddisfazione c’inchioda a questa ambivalenza della personalità e forse è così anche per Evan Dando. (Per essere come lui ci manca solo di farci di eroina). Per più di un attimo è stato lì, poi non c’è stato più. I Lemonheads che svoltano e cercano di vincere sono una sua creatura, ma lo sono anche quelli che affondano qualche anno dopo. In questo preciso momento sono in tour in America, Nuova Zelanda o Australia con la formazione che sta bene a Dando adesso, Ben Deily e Juliana Hatfield compresi. Da fine di Agosto-inizio Settembre di due anni fa si parla di un album nuovo. Disco da aspettare, buone notizie di fine estate, non ancora diventate vere, bloccate tra la voglia di fare uscire robe inedite e il silenzio discografico. Ma quando fai alcune cose grandi, le hai fatte. Evan Dando e i Lemonheads hanno scritto questa musica, e in ‘sto caso il futuro non è poi così importante.