Australia era un disastro. Il Grande Gatsby non poteva nemmeno sforzandosi essere peggio, quindi si stava tranquilli. Si va al cinema, ci si siede, e si vede un film di Baz Luhrmann.
L’inizio promette malissimo, tra zoom e fasti scenografici si corre il rischio di dover assistere a più di due ore di Moulin Rouge. Non sembra possibile per Baz Luhrmann non fare l’ultimo Baz Luhrmann, quello con i soldi di una produzione grande. Sono finiti i tempi di Romeo & Juliet, quando il primo trucco pesante dato a un film, dopo Balroom (povero ma bello), brillava come il sorriso di Mercutio, simbolo di un cinema sfarzoso ma dritto. Ora la grande baracca di Luhrmann non è altro se non una citazione di se stesso.
Una delle psicosi incurabili di Baz Luhrmann, una delle cose che fa e rifà, è pescare canzoni di oggi, farle remixare e buttarle in un film con un balletto retrò. Il tutto risulta sempre, senza una sola eccezione che sia una, più che eccentrico, fuori luogo. Se poi aggiungi all’insalata l’ovino, il risultato è esplosivo: Jay Z è tra i produttori esecutivi del film.
Tutta la musica del Gatsby di Luhrmann, di seguito.
1. Jay-Z: 100$ Bill
2. Beyoncé and André 3000: Back to Black
3. will.i.am: Bang Bang
4. Fergie, Q-Tip, and GoonRock: A Little Party Never Killed Nobody (All We Got)
5. Lana Del Rey: Young and Beautiful
6. Bryan Ferry with The Bryan Ferry Orchestra: Love Is The Drug
7. Florence and the Machine: Over The Love
8. Coco O. of Quadron: Where The Wind Blows
9. Emeli Sandé and The Bryan Ferry Orchestra: Crazy in Love
10. The xx: Together
11. Gotye: Hearts a Mess
12. Jack White: Love is Blindness
13. Nero: Into the Past
Luhrmann adatta per la terza volta sul grande schermo il romanzo di Francis Scott Fitzgerald. Il primo è quello del 1949, di Elliott Nugent; non l’ho visto e non so chi sia il regista. Il Grande Gatsby di Jack Claiton con Mia Farrow e Robert Redford (1974) durava 144 minuti, quello con Di Caprio e Carey Mulligan ne dura 142. Se non ci fosse stato il romanzo, con quella storia e quel personaggio, sul palcoscenico di Baz Luhrmann sarebbero rimasti gli attori (alcuni) nudi, sprovvisti di un perchè. Gli attori di cui parlo sono i tre uomini: Leonardo Di Caprio che interpreta Gatsby, Toby Maguire che fa Nick Carraway e Joel Edgerton, il marito di Daisy Buchanan, già interprete di alcuni dei film più brutti degli ultimi dieci anni, tra cui Smokin’ Aces. Per non rischiare di dare un giudizio fallocentrico, dico anche che Carey Mulligan è una perfetta Daisy, nel sendo di perfetta nella parte: sussurra e piange, quando non piange sussurra, quando non sussurra fa gli occhi grandi. Inoltre, le mille comparse sono tutte bravissime a ballare il Jazz su Beyoncé. Parlando di presenze, per ritornare a un giudizio di matrice fallocentrica, Elizabeth Debicki (nel film Jordan Backer) cammina un metro sopra tutti gli altri, ma solo perchè è a volte spaventata, a volte smorfiosa, a volte succube, la maggior parte delle volte altezzosa.
Quindi, tutto quello che c’è di buono in questo film c’era già in quello del ’74 (sceneggiato da Francis Ford Coppola), Baz Luhrmann aggiunge se stesso inutilmente: ai fini della storia e del cinema non serve a niente, tutt’al più a patinare un racconto per niente patinato di suo e che poteva rimanere grigio (desolato) com’era nelle pagine di Fitzgerald. Ma a lasciarlo grigio si sarebbe fatto un remake del film con Robert Redford. E allora perchè? Insomma sarebbe stato meglio non farlo ‘sto film perchè tanto Di Caprio avrebbe senz’altro trovato un altro film in cui essere grande. Oppure, sarebbe stato meglio farlo senza farsi prendere la mano da se stesso, mai. Il grigiore e la disperazione della solitudine nascosti sotto la ricchezza e la sicumera erano uno dei punti di forza della storia. Quando esci dalla sala hai la sensazione che manchi la profondità, mascherata dal tocco eccessivo del regista, sempre molto attento ai dettagli, che finiscono per distrarlo e non gli permettono di stringere fino in fondo il cuore della storia. Meglio, infatti, la seconda parte, dove Luhrmann lascia piu’ spazio a Fitzgerald.
In fondo Baz Luhrmann sembra disperato. Non riesce a uscire dal personaggio di regista della baracca, anche quando sarebbe necessario farlo: entra nei panni del grande personaggio, si orienta benissimo nella scrittura della sceneggiatura e nella direzione degli attori ma poi non resiste e ritorna se stesso, quello di sempre, senza trovare un punto d’incontro tra le esigenze della storia e quelle del regista. Giustamente, perchè il facoltoso Jay Gatsby potrebbe benissimo essere il sopra le righe Baz Luhrmann, quindi Baz Luhrmann entra in Jay Gatsby e le feste di Gatsby diventano le feste di Luhrmann. Potrebbe, ma avrebbe dovuto essere il contrario e avrebbe dovuto esserci più Gatsby e meno Luhrmann.
È un romanzo difficile da fare proprio senza incorrere in sbavature in eccesso. In generale nei passaggi dai libri ai film non mi piacciono troppo le ricostruzioni filologiche, o comunque fedeli in tutto, ma credo che il regista, per attuare variazioni proprie, di qualsiasi tipo, debba prima essere in piena sintonia con quello che racconta. Non mi è parso che Baz Luhrmann lo fosse.