Il disco nuovo dei Belle & Sebastian

non è il calcinculo di gatteo mare, è solo una foto esemplificativa

non è il calcinculo di gatteo mare, è solo una foto esemplificativa

Dopo molti anni, e già da tempo, i Belle&Sebastian sono out, non se li cagano più tutti quelli che se li cagavano una volt. O meglio, se li cagano ancora ma in modo diverso, con meno intensità, con meno amore, per inerzia, perché il discorso è abbiamo iniziato con talmente tanta passione a seguirli, che non smettiamo adesso, è un biglietto da prendere al supermercato, in nome dell’amore di un tempo. Non condivido questa visione, ma è ok. Qualche anno fa (prima del 2000, anno dello spartiacque, Dear Catastrophe Waitress, ingresso su Rough Trade, un po’ fine dei giochi e delle canzoni migliori) se non li ascoltavi venivi preso a sassate. Io li ascoltavo quindi ero salvo. Poi l’entusiasmo dei fan delle mie parti si è sgonfiato.

Un collegamento, dal punto di vista musicale, coi primi tempi c’è ancora. Dentro al disco nuovo ci sono canzoni (Born To Act) che se fossero state in If You’re Feeling Sinister sarebbero state alla sua altezza senza nessun problema. Dall’altro lato, la parte stucchevole dei B&S ha avuto uno sviluppo superiore a tutto il resto: la capacità di arrangiare e scrivere canzoni ha lasciato spazio a canzoni meno scritte e più prodotti (Two Birds), ed è la fine di quello che mi piaceva di più. Che sia lo stesso motivo che ha allontanato gli altri dai B&S, non so, ma questo è il mio, e il primo sentore l’ho avuto con Dear Catastrophe Waitress. Per via di amicizia, morose, odi e cose così i Belle & Sebastian sono comunque stati una parte della mia vita, tipo che ho comprato dischi e sono andato a concerti molto spesso. In qualche modo con questa cosa devo fare i conti. Non perché li detesti, ma perché ora non sono più quello che erano, suppongo il discorso valga per mille mila altri gruppi, quindi via, dentro anche i B&S nel cesto degli alcolici evaporati. La vita non è triste, ma bisognerebbe sempre cercare una cosa mai ascoltata da ascoltare.

Per esempio, non comprendo il ricorso alle cose un po’ Soul che hanno buttato dentro a questo disco (Piggy in the middle). Percepisco in fondo che c’è una svolta Calexico, dei primi, quelli più raffinati, in A Politician’s Silence che alla fine è una delle canzoni che riporta di più al passato dei B&S rispetto a tutte le altre, anche se gli strumenti suonano come freddi come il ghiaccio. Nobody’s Empire è la canzone di uno che sa scrivere canzoni per fare ballare gente, impeccabile, un po’ Bulgaria, ma crescendo ineccepibile. Una specie di autore in giacca e cravatta come se ne vedono tanti però. Ho letto di ritorni ai tempi di Tigermilk per via delle parti di elettronica (molte, più o meno) in Girls in Peacetime Want to Dance. Ma non credo. Insomma, qui ci sono metri di ghiaccio da sfondare prima di arrivare a una specie di cuore. Quei due, sul palco, non mi hanno mai convinto, mi è sempre sembrato che si sopportassero. Lo spettacolo era bellissimo, ma erano distanti. Mancarone Distanti. Non solo fisicamente. Questa distanza, non fisica ma dall’essere un gruppo non gommoso, con gli anni si è accentuata. Anche una canzone come The Cat With The Cream, delicata, sensibile, non corre libera nei prati, non so ma c’è qualcosa che la trattiene. L’abitudine. Bruttissima cosa. E Enter Sylvia Plat cos’è? Renatone nazionale. Va tantissimo, ok, ma sembra la Carrà. The Party Line ha tutto l’aspetto di una canzone della Veronica Ciccone in crisi nei 2000.

C’è qualcosa di bulgaro in questo disco, e non trovo che sia una cosa bella. Io non ho niente contro i bulgari, s’intende. Però quando vedo la TV italiana penso che assomigli moltissimo a quella bulgara per i colori, le sfumature dei filtri, i costumi, lo spettacolo di terza categoria. Non discuto sulla categoria e il livello dell’arrangiamento di Enter Sylvia Plat ma mi pare che sia un po’ porno dance e che l’atmosfera sia proprio quella del luna park gestito dai bulgari nella piccola città di mare italiana (per esempio Gatteo Mare), quando arrivano le giostre e poca gente ci va su perché la stagione sta andando male, passi lì vicino, non troppo vicino però, senti in lontananza la musica, questa musica, pensi al fascino erotico che può avere e se lo vedessi adesso il calcinculo dei bulgari penserei che potrebbero suonare Enter Sylvia Plat dei Belle & Sebastian. Io capisco il fascino francese della dance un po’ à la Gainsbourg, che in effetti si percepisce in qualche momento della canzone, e si sposa benissimo con lo stile di Stuart Murdoch, ma in questo caso più di altri è difficile avere la certezza che sia un piccolo tocco trash al disco o un piccolo tocco trash consapevole al disco. A cosa pensava Murdoch quando scriveva Sylvia Plat? E faseva in te sèri*? Rideva un po’ oppure gli piaceva? E comunque non mi farei mai coinvolgere in un affare sessuale dai bulgari nella cabina che sta di fianco al calcinculo. In realtà c’è anche qualcosa di sensuale in quell’atmosfera, ma credo sia dato dall’aspetto sporco della cosa, e Enter Sylvia Plat dei Belle & Sebastian questo risvolto non ce l’ha: è freddo, come gli altri pezzi dell’album, studiati col contagocce, precisi come sempre, su disco e dal vivo, ma qui perdono quel calore che avevano. Calore cui sono sempre stato un po’ contrario, perché non è che io fossi del tutto d’accordo sul fatto che mi piacesse quel suono. Ma mi piaceva.

* in romagnolo e faseva in te sèri vuole dire faceva sul serio. Sei di fronte a una persona che sta facendo una cosa che a te sembra un po’ strana e quindi dal tuo punto di vista non sai se lo sta facendo per scherzare o no. Poi, quando scopri che non stava scherzando, puoi dire “No, no, e faseva in te sèri!”.

The Everlasting Muse potrebbe essere mischiata alle loro canzoni più belle. Forse si potrebbe piazzare come b-side di The Boy With Arab Strab, per capacità di tirare la strofa per le lunghe (3 minuti) senza farti sentire il ritornello, e arrivando con un ritornello bello, non c’è niente da dire. Io non ho una passione sfrenata per la voce femminile utilizzata in quel modo, che entra e esce tra i vuoti della voce maschile (non è una questione di lotte tra sessi, sesso debole e sesso forte, ma è proprio una cosa che non mi garba troppo: il corretto continuo gentile gentile che tocca e fugge ogni volta, mi piace di più la voce femminile com’è in Ever Had A Little Faith?) e The Everlasting Muse avrebbe potuto benissimo farne a meno ed essere bella nella semplicità strofa ritornello strofa con strumenti aggiunti e ritornello per il finale. Dopodiché torna la TV bulgara/film per la TV italiano sulla malavita di una qualche regione negli anni 80, oppure un film di Gigi e Andrea con i Maroon5 e Damon Albarn alle musiche: Perfect Couples. O soprattutto l’inizio di Play For Today. Che è un pezzo coraggioso.

Però sai cosa ti dico. Che questi Belle & Sebastian non si sono fatti travolgere completamente dalla smania di fare qualcosa di elettronico. L’interesse l’avevano già mostrato a partire da cento anni fa con Electronic Renaissance che però era una cosa grezza, semplice, efficacissima. E essendo un gruppo di quelli che hanno i capelli bianchi nel giro indie di un certo rilievo posso anche pensare che abbiano fatto il lavoro (il disco nuovo) come lo volevano fare senza concedersi troppo all’elettronica easy, concedendosi quello che volevano loro, quanto andava a loro. Oppure, che abbiano pensato di fare un disco che è una via di mezzo tra quello che sono stati per la maggior parte del tempo e quello a cui hanno accennato senza troppa per pochi attimi per stare dalla parte del sicuro, non perdere i fan storici e cercare di guadagnare un po’ di giovani ragazzi e ragazze. Ecco.. io non lo so proprio cos’abbiano deciso di fare. So che di sicuro non c’è un rinnovamento. So che se avessero scelto la strada che hanno scelto per il secondo motivo che ho detto non sarebbe granché. Per loro eh, non per me. So che hanno marcato il pennarello sulle cose che mi piacevano meno e hanno lasciato perdere le canzoni, quelle con un ritmo che ti faceva sognare, quelle con una storia che andava alla stessa velocità della canzone, quelle che la storia te la raccontavano anche se non capivi tutte le parole. Ecco, a Girls in Peacetime Want to Dance manca del tutto questa cosa. Qualche momento di calore l’ho trovato, ma sono pochi, sono troppo pochi. Se penso agli album usciti negli ultimi anni, non ricordo quando ho ascoltato l’ultimo bello, Write About Love me lo sono cagato veramente poco, ma visto che con loro non sono in modalità ignorante kill your idol, ogni volta un po’ di speranza ce l’ho.