Neil Young, Crazy Horse, Americana e il salvataggio di uno stolto

Ricordo di aver toccato il fondo quando ho pensato “Bella questa canzone di Tiziano Ferro”. Ho rimosso a quale pezzo mi stessi dissennatamente riferendo. Qualche giorno mi ci volle per capacitarmi dell’inadeguatezza del mio pensiero. Una volta reSOmeNE conto, caddi in depressione.
Dei ex machina della ripresa, benefattori direi, cui devo la salvaguardia dell’ultimo briciolo di stima di me stesso, furono Neil Young & Crazy Horse che fecero uscire il Live at the Fillmore East, attraverso il quale riscoprii l’album Greendale, che mi ero perso, un pappone ambientalista metaforico naturalista, ma comunque un toccasana.
Sono le 9:45 dell’11 agosto 2012. Oggi, a distanza di qualche anno, MTV trasmette un’improponibile classica dei dieci migliori video ROCK degli ultimi tempi. Rischio di essere risucchiato un’altra volta, ma eccolo, vedo sul tavolo Americana, l’ultimo di Neil Young & Crazy Horse (www.neilyoung.com). Spengo la TV, accendo lo stereo.
Oh Susannah è il titolo del primo pezzo. L’incipit permette all’album di guadagnarsi subito il mio entusiastico orgasmo: la canzone si struttura poco per volta, prima la chitarra, poi la batteria, poi il basso, esattamente come se stesse nascendo in sala prove. Arrivano i cori, e arriva la voce di Neil Young. L’effetto meraviglioso della presa diretta ti entra subito nelle vene, senza permettere a niente di intromettersi. Sarà una caratteristica di tutto l’album: le imprecisioni, gli attacchi ritardati ti dicono che le cose stanno così, buona la prima, one shoot one kill, da Eminem ai Crazy Horse. Ci sono sovra incisioni, si, ma non disturbano. Le voci alla fine della canzone mettono un sigillo all’idea.
Clementine è il secondo pezzo. E ditemi se quando parte la batteria e si muove con la chitarra e con i cori non è tutti meraviglioso. È come sprofondare nel pieno fottuto folklore a stelle e strisce, anche un po’ spaesati dalla lieve accelerazione del ritmo che all’improvviso arriva inaspettata, imprevista anche da chi suona. Il rock corre dritto come un fuso, completato da momenti lirici immensi. Neil Young rivisita questo classico americano ed è chiaro: è un maledetto poeta storto e scattoso, come la sua figura quando suona la chitarra.
È la volta di Tom Dula, riarrangiamento di un pezzo degli anni ’60 degli Squires, il primo gruppo di Nello, molto uguale a se stessa per tutta la sua durata. È consolatoria e permette di aggrapparti alle certezze che Neil Young ci ha sempre fornito, non tanto con la sua musica, sempre impossibile prevedere, quanto con la sua mitica personalità. Io amo quest’uomo. Chiusura con batteria fuori tempo: impagabile imprecisione di chi sceglie di registrare così, dando un’impronta sincera all’opera.
Tutto Americana contiene classici americani riscritti da Neil Young. Arriviamo a Get A Job attraverso Gallows Pole e un po’ sorridiamo delle ritmiche, dei vocalizzi e dei coretti incongruamente spezzati dalla sporchissima chitarra, ma il tema di cui si parla nel testo è serio, e non si scherza. Travel On ti fa suo già dai primi versi cantati in solo da Neil Young. Poi prosegui nell’ascolto e non cambi idea. Ritmiche allegre, cori femminili, chitarra che viaggia verso lidi che solo lei conosce: ecco cosa succede quando questi tre cavalli pazzi più uno si lasciano prendere. La batteria potrebbe suonarla anche un bambino, il basso gira del tutto innocuo, però se alzi il volume non vorresti fare altro nella vita che non galleggiare allegro ma non troppo su ‘ste note. La canzone si trascina ed è una fortuna. “Torniamo a noi, bando alle ciance!” ci dicono in nostri con l’attacco della successiva High Flyin’ Bird, ripescaggio dagli anni ’60 degli Squires. E giù di batteria pestata e chitarra che frigna. Il tema del lavoro nelle miniere ritorna come una scheggia insanguinata a farci pensare quanto questo disco sia completo di tutto ciò che vorremmo sentire da una band di questo tipo: tradizione, malattia, impegno, divertimento, consuetudine, note di chitarra che ti trascinano via.
A raddrizzarci ancor più la schiena arriva Jesus’ Chariot, dove musica e canti dei lavoratori creano un unicum esplosivo, una sveglia rude e severa. Ditemi, oh due lettori sparuti di neuronifanzine, cosa provate ascoltando This Land Is Your Land che recita “this land is your land/this land is my land/from California/to New York islands”. Non c’entro un cazzo io con le loro terre, ma è lo stesso. L’assolo di Neil Young è universale. Si cambia tono con Wayfarin’ Stranger, malinconica e lenta. L’America maledetta delle guerre e della sanità per i ricchi passa anche attraverso le diverse negatività della sua storia e le canzoni di cantautori enormi che ne hanno sottolineato le malvagie assurdità e che ancor oggi continuano, per fortuna, a metterne in evidenza le ataviche e irrisolvibili questioni su lavoro, razzismo, violenza. Neil Young & Crazy Horse lo fanno nel 2012 con un disco che, sì, è un omaggio alla tradizione statunitense ma non lascia chiuse certe ferite dell’America, anzi le rende vive con forbici e pinze.
Gran finale con God Save the Queen.
Sono un soggetto a rischio? Il pericolo merda fresca o conservata e impacchettata è sempre in agguato. Tra un po’ di tempo, tornate e salvatemi ancora, Cavalli Pazzi.