
Prendete Charles Bukowski di Post Office e mettetelo a guidare un taxi, negli Stati intorno al Mississippi. Viene fuori Lou Bishoff, il protagonista di Last Taxi Driver. E viene fuori uno spaccato sociale grottesco, di un cinismo spiazzante.
Lou Bishoff oltre a se stesso ha intorno altri personaggi speciali: carica solo avanzi di galera, tossici e spostati. Non è una scelta la sua, è che lavora per una compagnia che fa cagare. Per quanto si sforzi di essere una persona cortese, è una merda. E si sente una merda. Tutto dipende da questo: dall’insoddisfazione per la vita. La sua carriera da scrittore è finita male e ce l’ha col mondo, dice un sacco di cattiverie, alcune delle quali sono verità. Ma Lou Bishoff un briciolo di senso dell’umorismo ce l’ha quindi alla fine gli passa quasi tutto.
Da queste cose si capisce che un po’ autobiografico lo è, Last Taxi Driver. La storia di Lee Durkee infatti è assurda. Il suo primo libro risale a qualche anno fa e fu una gran fatica. Recensioni ottime ma nessuno ci fece particolarmente caso. Poi riuscì a trovare qualcuno che gli diede fiducia per far uscire l’edizione economica e rilanciarlo sul mercato. Tutto andò meravigliosamente, recensioni ottime e gran complimenti. Peccato che poco dopo ci fu l’11 settembre 2001: negli USA fu l’anno in cui si vendettero meno libri dalla Guerra Civile. “Il tascabile vendette 9 copie, credo” dice Lee Durkee.
Il suo secondo libro (questo) era atteso come il romanzo del genio disperato che si vuole riscattare, quindi tantissimo. In America uscì a fine 2019, il tour delle presentazioni iniziò a febbraio 2020, “Mi sono divertito” ha detto una sera Lee Durkee. Poi, pare che sia scoppiata una pandemia.