#16 Michele Monina

“Perché l’idea di essere autarchici, veramente indipendenti, non va confusa con l’idea di essere indie, e quindi un po’ approssimativi, come ormai l’indie di casa nostra ci ha abituati”
(M. Monina, Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2015)

Monina sbaglia tutto in un articolo di fine luglio su Marvis, la comune artistica di Fabio Cinti e Irene Ghiotto che anela a sostituirsi alle etichette discografiche per dare e avere più libertà compositiva. Gli artisti che lo desiderano, possono partecipare, gratis. In un discorso confuso e impreciso che tira in ballo l’indie italiano e il lo-fi, si dice che Marvis è il “comitato creativo” che compone le canzoni e impone ai musicisti delle linee guida, come cantare in inglese e utilizzare un gusto estetico raffinato e molto esigente. Se chi partecipa deve rispettare dei canoni, allora tra un’etichetta discografica tradizionale e Marvis non c’è nessuna differenza. I suoi titolari finiscono per svolgere il ruolo di ciò che volevano combattere. E non c’è differenza neanche con i talent show.

Un passaggio che arricchisce l’articolo è: “Il livello, ci spiega sempre Cinti, deve sempre essere alto. Anche lo-fi, se è il caso, ma un lo-fi dettato da una scelta estetica, non da una necessità di fare economia… L’idea di essere associati a chi fa musica con uno spirito naif, casalingo, è quanto di più lontano dal progetto Marvis” chiosa Cinti, “perché anche se in effetti poi l’album è stato registrato in casa, gli standard tenuti sono quelli che si sarebbero ottenuti in uno studio professionale”.

Anni e anni di ‘900 come se non fossero mai trascorsi.

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