Le cose che temo di più e che spesso mi fregano sono le aspettative. Bill Callahan a Bologna era un binomio da aspettative enormi ma anche la chiusura di un personale cerchio: nella stessa città il nostro primo incontro, oltre una dozzina di anni fa, grazie al cd di Dongs of Sevotion (Smog) prestatomi da un coinquilino. Da quell’incontro la ricerca discografica a ritroso: Red Apple Falls, Wild Love, Julius Caesar, solo per citarne alcuni. I primi lavori di Smog, così zoppicanti e logori, facevano il paio con gli intonaci ammalorati e le arenarie erose dei portici bolognesi. Dal primo incontro furono decine di chilometri a piedi in sua compagnia, sotto quegli stessi portici, lasciando al palo la bicicletta per avere dieci minuti in più di ascolto prima di arrivare a lezione.
(il mio primo post su Neuroni ed è già nostalgia come se piovesse. pessimo.)
Al teatro dell’Antoniano, quello dello Zecchino D’Oro, gli intonaci sono in perfetto stato e tutto è tirato a lucido in una sorta di grandeur architettonica anni ottanta. Il teatro è grande, tutto esaurito da tempo, e in platea c’è mezza scena indie nostrana, pochi studenti e molti laureati disoccupati. Stride il contrasto tra l’abbondanza di persone e velluti e l’aurea introspettiva che da sempre ha circondato il fu Smog. Quando vedo due chitarre, un basso, una batteria, l’istinto è quello di muovere il culo da quelle poltroncine verdi troppo comode e avvicinarsi al palco che in fondo in fondo siamo sempre a un concerto rock. E’ il secondo contrasto della serata, perché arrivato in età matura il teatro è quasi sempre il mio contorno prediletto. Sulla scena viene proiettata una luna piena e si comincia con The Sing, primo brano dell’ultimo disco Dream River. Si parte troppo forte, tanto che il primo asso viene sprecato, calato a freddo, con i suoni ancora da riempire e gli animi da rodare. Con Javelin Unlanding si migliora, al netto dell’assenza di un flauto e un violino qua e là tutto bene, tutto bello, ma io comincio a sentire la minaccia delle aspettative perché sono già passate due canzoni e non mi sono ancora commosso. Poi arriva a sorpresa Dress Sexy At My Funeral e bang!, steso. Una squisita versione rivisitata alla moviola che delizia oltremodo gli appassionati della prima ora. Il concerto prende una piega diversa e sale di tre gradini. Ora sì che ti riconosco, Bill. Intanto un paio di attempati energumeni in giacca e cravatta si aggirano per il teatro come goffi secondini del copyright, vietando foto e riprese ai non autorizzati (azione di per sé deprecabile, non fosse che per una volta, finalmente, si riesce a godere di un concerto senza tutti quei fastidiosi schermi luminosi che ti guardano in faccia). Mentre immagini di boschi, rocce e orizzonti si alternano languide alle spalle della band, si apre il secondo capitolo dedicato al penultimo album Apocalypse: America!, One Fine Morning, Drover, intervallate dalle più recenti Ride My Arrow e Spring. Un capitolo ben preciso dove si definiscono i ruoli e prende forma l’anima del concerto: Bill, che strimpella statuario la sua Stratocaster verde oliva e imbocca l’armonica all’occorrenza, è l’unico in piedi e dirige la scena alzando di tanto in tanto il sopracciglio. Migliore attore non protagonista della serata è il chitarrista Matt Kinsey, il quale ricama e pervade ogni pezzo con assoluta maestria, risultando molto incisivo ma mai eccessivo. La sezione ritmica è affidata al basso di Jamie Zuverza (il protagonista del bizzarro video di Small Plane) che suona piacione in completo relax manco fosse nel salotto di casa, e da un giovane ignoto batterista ben istruito dal vate Thor Harris a usare più le mani che le bacchette. L’impressione a questo punto è che i quattro riescano a dare il meglio nelle rivisitazioni dedicate ad Apocalypse: gli oltre dieci minuti di One Fine Morning valgono il prezzo del biglietto. Il concerto si avvia verso la terza parte, ovvero l’inizio della definitiva consacrazione, con la cover degli anni ’50 (Please Send Me Someone To Love di Percy Mayfield), occasione per presentare la band con un giro di assoli e per sognare un intero album di cover come disco dell’anno facile facile (piangi un po’ se ti va). Poi viene calato il secondo asso di Dream River, Small Plane, e si porta a casa l’intera posta. Qui c’è tutto Bill Callahan: inarrivabile, magnetico, geografico nello sconfinato immaginario attraverso il quale riesce a trasportarti con la sua voce e certe sue canzoni. Già, la voce di Bill Callahan, quella mica la posso descrivere. Se già la consoci sai cosa intendo, se non la conosci sei la persona che più invidio al mondo perché non hai ancora ascoltato A River Ain’t Too Much To Love. Bill Callahan stasera è una sfinge come sempre, ma si lascia sfuggire qualche sorriso, ringrazia per i fragorosi applausi e tenta persino una battuta (non riuscita) sul Belpaese. Insomma, se si può dire, più gioviale di quanto mi aspettassi. Arrivano Seagull e Winter Road come chiusura perfetta a sancire definitivamente che nessuna aspettativa era mal riposta. E se non è abbastanza il bis con Rock Bottom Riser, perla assoluta del repertorio di Smog, è una buonanotte che mette la firma d’autore a un concerto memorabile.