l’unico sketch brillante di un film dei Coen non può essere quello del gattino smarrito. Se non avete visto A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis) la storia bisogna che ve la racconti, è molto semplice: c’è un musicista folk (Llewyn Davis) che nel ’61 a New York, più o meno al Greenwich Village, non riesce a sfondare; per questo motivo è depresso. In più, è molto sfortunato. E basta.
Uno dei simboli della sfortuna di Davis è un gattino di amici, che scappa di casa, e che a un certo punto è l’unico essere vivente a cui rimane aggrappato, sigh. Poi Davis decide di smettere di suonare ma non riesce a fare neanche quello. Sembra una storia triste, ma Davis fa fatica anche ad apparire triste, perché è troppo stanco. E non è una cosa positiva, anche perché la conseguenza è che la sua storia è debole, anzi noiosa. Si concentra sul gatto, sui figli non riconosciuti, sul rapporto con la ragazza di un amico e con la sorella; cioè parliamo più o meno sempre di lui e molto poco della musica e del Greewich Village. Quindi A proposito di Davis non è un film sulla musica ma su un personaggio, è chiaro fin dal titolo; ed è quanto meno ambiguo fare trailer (almeno uno dei) includendo la canzone di Bob Dylan, che nel film arriva alla fine e nei titoli di coda. Quella canzone e il contesto evocato, con tanto di locandina italiana (almeno una delle) in memoria di The Freewheelin’, tocca un determinato immaginario, che poi nel film c’è in minima parte. E molti l’hanno presentato così, molti della stampa, come un film sul folk. Gomblotto! È un film su un cantante folk che avrebbe potuto essere anche un pittore per quanto è importante il folk, e al posto del locale in cui suona avrebbe potuto esserci uno studio sui tetti di Parigi. Ma tengo per buono che sia un musicista. Comunque non è bravo abbastanza da diventare famoso. Non si ammette neanche questo, nel senso che si abbozza ma non si percorre la strada del non è abbastanza bravo, e si ricorre all’è un musicista che vuole fare la sua musica, non vuole scendere a compromessi per questo non ha successo. E così ripartiamo con la centesima pippa sull’artista puro e anche un po’ incompreso, pippa che (ok) si mescola con una certa inettitudine, ma l’intenzione è quella di raccontare un incompreso. Da tutti. Nessuno lo vuole, non ha famiglia, ha solo una sorella che lo odia perché è l’opposto di lui – e per questo è il controcanto più interessante del film -, non ha casa. È un barbone; e, dai, non è bello un film che parla di un barbone.
Poi c’è il gattino (Ulisse), protagonista di uno sketch sintomatico del livello (basso, rispetto alla media Coen) dei dialoghi e della sceneggiatura. Davis una sera dorme in casa di amici e uscendo fa uscire anche il gatto. Lo recupera, ma Ulisse scappa ancora. Seguono giorni interi a preoccuparsi di lui. Per puro culo Davis lo ritrova, lo riporta agli amici ma Ulisse non è Ulisse, è un altro gatto che gli assomiglia. Prevedibile, ma un po’ integrante. Per gli Ebrei il gatto è un animale selvatico pericoloso per l’uomo, ma viene tenuto in casa perché uccide i topi, e per questo va rispettato. Simbolicamente ha significati sia positivi che negativi. Comprendo che sia affascinante per i Coen l’idea di ribaltare la simbologia ebraica trasformando il gatto in un animale solo buono e bello (i gattari di tutto il mondo, toccati nella passione, sono giustamente corsi a vedere la storia di Davis), ma che mi incuriosisca vedere come si sviluppa una loro sceneggiatura solo per sapere che fine ha fatto il gatto visto che il resto della storia mi interessa poco mi sembra un segnale da interpretare negativamente. In più, questa recensione l’ho iniziata col gatto e l’ho finita col gatto, e io posso anche farlo, ma che i Coen aprano il film con una sequenza per poi riprenderla alla fine per dirmi che la vita di Davis non cambia mai è sintomatico di una chiara mancanza di idee. La circolarità è una soluzione abbastanza classica ed è stata un (odio la prossima parola ma non me ne vengono altre) escamotage piacevole in passato; ma non è più un elemento di sorpresa e utilizzarla per risollevare alla fine dei giochi i destini di una storia che non ha punti di forza è solo un tentativo non riuscito di rendere in qualche modo interessante una storia che non lo è.
Fotografia bellissima, ma solo quella. (Niente Oscar). Non è quasi mai possibile fare sempre film belli, i miracoli succedono ma non sempre; anche i lisci succedono, e A proposito di Davis è uno di quelli grossi.